31 maggio 2006

Un grande grazie

Carissime\i,
come forse avrete già saputo, sono rientrato fra i candidati eletti al consiglio comunale di Roma nella lista di Rifondazione Comunista. E' una bella soddisfazione, tanto più nel contesto di una nitida vittoria del centrosinistra a Roma (oltre al sindaco, praticamente in tutti i municipi)e in Italia.
Il margine con cui sono stato eletto è abbastanza ristretto da far sì che letteralmente ciascuna delle persone che mi hanno dato fiducia sia risultata decisiva. Quindi il ringraziamento deve essere inteso davvero in senso molto personale, uno per uno. Farò davvero tutto quello che posso per non deludervi.
Un abbraccio - anzi, 1787 abbracci.
Sandro

Il cuore in periferia

“Roma è stata sempre bolscevica”, cantavano, con qualche eccesso di ottimismo ma non senza indizi di ragione, gli Arditi del Popolo che nel 1921 avevano ricacciato indietro la prima spedizione fascista, a San Lorenzo, Trionfale, Valle Aurelia. “Questa città ribelle e mai domata”, cantavano più tardi i comunisti e i partigiani che avevano resistito all’occupazione nazista. Roma ha la fama di una corpo inerte, reso indifferente e cinico dal peso di una lunga storia che grava addosso alla città con tutta la massa del Cupoloone o del Colosseo. Però basta scendere in strada, muoversi un poco fuori della cerchia dei monumenti e delle cartoline per trovare anche una città viva e capace di resistenza e ribellione.
Per trovare questa città, però, bisogna andare ai margini: nelle periferie, nelle borgate. È qui, infatti, che si è fatta in gran parte la storia di Roma nel ‘900. Ai confini di Roma, le deportazioni fasciste che creano le borgate come Tiburtino III o Borgata Gordiani, presto nidi di antifascisti, si incrociano con le migrazioni di massa che, in violazione delle norme fasciste sulle residenza (rimase in vigore fino agli anni ’60) portano a Roma una popolazione proveniente da tutto il Sud, una miscela di culture che porta con sé la memoria delle lotte contadine del Sud, e cresce e si trasforma in condizioni di precarietà, senza diritti. Ed è ancora in questi territori che viene a insediarsi l’immigrazione più recente, ripetendo in parte le esperienze degli immigrati meridionali di una o due generazioni fa: Roma multietnica è radicata a Centocelle come al Tufello, a Prima Porta come a Torre Maura. Se uno cerca dov’è che la città è cambiata, insomma, è da qui che deve cominciare a cercare.
La storia demografica della città si intreccia in periferia con la sua storia politica. Se è vero che le azioni partigiane più clamorose (a partire da via Rasella) sono avvenute nel centro storico dove si insediavano i comandi tedeschi, è altrettanto vero che è in periferia che la resistenza assume una dimensione di massa che va oltre la clandestinità. Al Quarticciolo si evolve l’ambigua epopea del “Gobbo”; Donna Olimpia e Val Melaina sono il teatro di numerose azioni partigiane e di aggregazioni politiche originali (a Donna Olimpia è un prete oggi dimenticato, don Volpino, che aiuta e protegge i partigiani e nasconde le armi); a Ponte Milvio come a Portonaccio, le donne organizzate dalla resistenza assaltano i forni per il pane e la farina che mancano ai loro figli (a Portonaccio, basta ricordare Caterina Martinelli, uccisa – come è scritto nell’epigrafe di Mario Socrate – perché non poteva sopportare il pianto dei suoi sette figli affamati). La prima strage nazista – 10 fucilati tra la gente che era andata a cercare cibo,o armi, o tutti e due, in una caserma abbandonata – ha luogo a Pietralata; l’ultima, quattordici prigionieri politici fucilati a freddo sul ciglio della Cassia – alla Storta.
È soprattutto nel quadrante sudest della città – lungo la Prenestina e la Casilina, le strade che portano ad Anzio e Cassino – che la resistenza assunse dimensioni di movimento popolare, tanto che per qualche tempo fu possibile immaginare che zone come Certosa o Tor Pignattara fossero vere e proprie “repubbliche liberate”. Sono decine i partigiani operai del Casilino e Prenestino che figurano fra gli uccisi nella strage nazista delle Fosse Ardeatine. Ma la vendetta nazista si abbatte con violenza estrema soprattutto sul Quadraro, la borgata sulla Tuscolana che Kappler definì “nido di vipere” per la protezione che dava ai partigiani che vi si rifugiavano. Nell’aprile del 1944, i nazisti rastrellano il Quadraro e deportano oltre 900 uomini; quanti sono quelli che non tornarono non lo sappiamo, ma il prezzo pagato da questa “borgata di uomini liberi” fu certamente altissimo.
La storia di lotta delle periferie romane non finisce con la resistenza, ma continua nella battaglia per il risanamento delle borgate e nella lotta per la casa. I protagonisti sono spesso i medesimi: i gappisti venuti dal centro (Carla Capponi è il punto di riferimento delle donne di Borgata Gordiani come Rosario Bentivegna per Pietralata); e gli stessi partigiani locali, come il socialista Licata e il comunista Franchillucci a Centocelle, per i quali la lotta per condizioni decenti di vita è la continuazione naturale della resistenza. Ancora a cavallo degli anni ’60 e ’70,il movimento delle occupazioni – il Comitato Agitazione Borgate e il Sindacato Inquilini e Assegnatari – organizza gente di periferia e in periferia – Casal Bruciato, Val Melaina, Centocelle – individua i suoi obiettivi. In periferia, fra Tiburtina, Salaria, Casilina, si concentra l’intervento sulle fabbriche e la lotta per le autoriduzione della nuova sinistra negli anni ’70. E qui, da Forte Prenestino a Centocelle a La Strada a Garbatella alla Snia Viscosa al Pigneto, nasce e si sviluppa l’esperienza dei centri sociali.
Ricordo una mattina, davanti a un blocco di case occupate alla Serpentara, oltre Montesacro: arrivavano le camionette a sgomberare gli occupanti, e una donna commentava ad alta voce, “come i tedeschi, dieci italiani per un tedesco facevano”. Lo sgombero violento delle case occupate faceva parte della stessa storia delle Fosse Ardeatine, la storia di una Roma di periferia capace di memoria storica e di una combattiva consapevolezza dei propri diritti. Ricordo un’immigrata abruzzese nelle baracche dell’Acquedotto Felice che dava a un’antica strofa narrativa un significato nuovo, di identità e solidarietà in una città che ti rifiuta: “Se il papa santo mi donasse Roma e mi dicesse lascia anda’ chi t’ama, io gli risponderei: Sacra Corona, vale più chi m’ama che tutta Roma.” Roma (Roma del potere, delle cupole e dei santi) non la amava – ma adesso Roma era lei.
Restano tracce di questa storia? Certo, la composizione sociale e politica delle periferie è cambiata, la criminalità ha preso altre forme, la droga ha fatto i suoi danni, i fascisti sono usciti dalle fogne; ma il tessuto democratico resiste. E' in gran parte alle periferie che dobbiamo se Roma non si è fatta prendere dalla sbornia forzitaliota che ha investito tante altre parti d’Italia.

da Left - Avvenimenti

30 maggio 2006

Storia di una canzone

Un inno religioso è diventato una canzone di lotta, adesso la canzone di lotta si scopre anche canzone d'amore. Ma il messaggio è sempre lo stesso: io, noi due, noi tutti, ce l'abbiamo fatta fin qui, e ce la faremo, ancora

Era il 1985, e con la Lega di Cultura di Piadena avevamo organizzato una visita di due grandi musicisti americani, Guy e Candie Carawan, e un loro concerto nel caveau del palazzo comunale trasformato in piccolo teatro con un’acustica fantastica. Il pubblico era fatto di compagni, per lo più di estrazione operaia, che guardavano all’America e alla sua cultura con sano sospetto antimperialista. Ascoltarono tuttavia, partecipi e compresi, i suoni poco familiari della mountain music del Sud degli Stati Uniti; ma poi, all’attacco dell’ultima canzone, silenziosamente, uno dopo l’altro, come se stessero ascoltando qualcosa di sacro, si alzarono in piedi. Dell’America non sapevano molto, ma questa l’avevano riconosciuta e sentita loro: era “We Shall Overcome”.
“We Shall Overcome”: ce la faremo, supereremo anche questa. Adesso ce l’ha riproposta anche Bruce Springsteen, nel CD intitolato, appunto We Shall Overcome. Nella tradizione afroamericana del gospel e dello spiritual c’è l’immagine ricorrente della vita come un percorso fatto di prove e ostacoli materiali e spirituali da superare, un difficile viaggio da compiere scavalcando montagne, passandoci sopra (over, appunto). In un video realizzato dai Carawan, Hugh Cowans, predicatore e sindacalista delle miniere di Harlan, canta insieme a sua moglie Julia un brano gospel tradizionale, “How I Got Over”: come ho fatto a superare tutte le asperità e arrivare fino a qui. In The Gospel Sound, il più classico libro sulla storia del gospel, Tony Heilbut nota che nell’inno “Amazing Grace”, amatissimo da bianchi e neri, la strofa più cara agli afroamericani è quella che dice: “Attraverso pericoli, prove e insidie siamo arrivati fino qui” (“we have already come”). Se mettiamo insieme lo over di “How I Got Over” e il come di “Amazing Grace”, il risultato è appunto questo: over/come.
La storia, dunque, è lunga. Comincia nelle stive delle navi negriere (“Amazing Grace” fu scritta, paradossalmente, da un negriero pentito di Liverpool nel ‘700), continua superando i pericoli e le insidie delle piantagioni e delle miniere. E poi ha una svolta negli anni ’30, in piena Depressione. E’ allora che due studenti (bianchi) di teologia, allievi di Reinhold Niebuhr, tornano nelle colline del loro nativo Tennessee, per mettere in piedi una scuola popolare. Erano gli anni della violenta repressione antioperaia, nel Sud fondamentalista e razzista, ma non avevano paura. Si chiamavano Myles Horton e Don West; la scuola che fondarono si chiamava Highlander, e diventò rapidamente il luogo di formazione dei quadri del movimento sindacale in tutto il Sud. Un luogo sovversivo non solo per la visione di classe che lo animava, ma anche perché era il solo posto in tutto il Sud che rifiutasse di praticare la separazione fra bianchi e neri.
L’idea di Highlander era che l’insegnamento era reciproco, che gli “insegnanti” imparavano dagli “allievi” – minatori, contadini, operai tessili – tanto quanto gli allievi imparavano da loro. Perciò si trattava di ascoltare e apprendere, raccogliendo la musica e le storie e andando nei luoghi dove prendeva forma la cultura di resistenza del mondo popolare. Per esempio, andando a Davidson e Wilder, due sperduti villaggi minerari dove il leader dello sciopero, Barney Graham, fu ammazzato dai sicari dell’azienda, e sua figlia ne cantò la lotta e la morte in una memorabile canzone. Myles Horton era lì, parlò, ascoltò, raccolse la canzone, e fu arrestato con l’accusa di “essere venuto sul posto, avere preso informazioni sullo sciopero e averle diffuse all'esterno”. In quel tempo e in quei luoghi, questo era un reato.
Nel 1941, Zilphia, moglie di Myles, era in North Carolina, per lo sciopero dei braccianti neri delle piantagioni di tabacco, e li sentì cantare uno spiritual poco noto: “I’ll Overcome, Someday”, ce la farò, un giorno. Gli spiritual trasformano facilmente in canzoni di lotta perché si prestano a un uso collettivo immediato: la forma più comune, come in “We Shall Overcome” è quella di una parte fissa che si ripete ogni volta finché tutti la imparano (“deep in my heart, I do believe…”: nel profondo del cuore, credo veramente che ce la farò, un giorno), e di una parte mobile, che ognuno può contribuire a cambiare e improvvisare, adattandola alle situazioni e agli stati d’animo del momento. “I’ll Overcome, Someday” andò ad aggiungersi agli archivi di Highlander (coi brividi addosso, sentii quella registrazione anch’io, a Highlander, mezzo secolo dopo), e lì rimase fino a un’altra fase della storia.
Con il dopoguerra e la guerra fredda, il rapporto fra Highlander e i sindacati si raffredda fino a spezzarsi: accusati di comunismo, Horton e la sua scuola vengono tagliati fuori dal movimento operaio; nel 1963, la scuola fu incendiata dal Ku Klux Klan e fatta chiudere dal governo del Tennessee. Ma non si perdono d’animo: la scuola riapre poco lontano e con un’altra ragione sociale: un’altra prova superata; e nel frattempo ha anche cambiato ruolo e interlocutori. Nel Sud, il conflitto operaio si è andato spegnendo nella repressione, ma la questione razziale diventa esplovia, e Highlander si riconverte a questa nuova causa, dedicandosi a formare i quadri del movimento per i diritti civili. Rosa Parks, sarta di Montgomery, Alabama, frequentò un workshop di Highlander; tornata a casa, il suo famoso rifiuto di cedere il posto su un autobus segregato scatenò il boicottaggio da cui ebbe inizio tutto il resto. Più tardo, a Highlander venne lo stesso Martin Luther King, e questa visita servì ai razzisti per accusarlo di frequentazioni comuniste.
Negli incontri con i quadri del nascente movimento, Guy Carawan, che si occupava dei programmi culturali a Highlander, ripropose alla nuova generazione afroamericana la tradizione musicale dello spiritual e del gospel come canzone di lotta. In un primo momento l’idea fu accolta molto freddamente: i nuovi militanti erano giovani, cresciuti col rhythm and blues, e quella gli pareva musica da schiavi e da braccianti – come infatti era. Solo che di quella storia di oppressione e povertà loro si vergognavano e avevano poca voglia di vedersela ricordare. Ma a mano a mano che la lotta si allargava, e che entravano in campo anche generazioni meno giovani e strati sociali più popolari, il potere unificante di quella musica ebbe il sopravvento e il movimento trovò il suo linguaggio musicale di massa. Guy Carawan aveva cambiato “I’ll Overcome” in “We Shall Overcome”, dalla speranza alla certezza del futuro, dal singolare al collettivo (come da “How I Got Over” a “We have already come”). Pete Seeger venne a Highlander, la sentì cantare nelle manifestazioni in Alabama a Mississippi, la riportò a New York in un indimenticabile concerto alla Carnegie Hall, e da lì la canzone arrivò fino al caveau del comune di Piadena. E a Bruce Springsteen, in un disco dove le tengono compagnia non meno di altri tre spiritual passati attraverso le lotte afroamericane, e che – con la dedica esplicita a Pete Seeger (il sottotitolo è The Seeger Sessions) si riconnette direttamente a questa storia.
Anche Bruce Springsteen ci mette del suo. Non è tempo di inni collettivi e di manifestazioni di massa, oggi; così la sua “We Shall Overcome” ritrova in altro modo la dimensione delle origini, non meno sentita ma più intima: “darling, we shall overcome, someday”. Il “noi” introdotto da Guy Carawan adesso è “noi due”. Fino dai tempi di “Thunder Road”, nelle canzoni di Bruce Springsteen la coppia non è un mondo chiuso ma la cellula iniziale di una società altra, l’inizio del superamento della solitudine e dell’egoismo. Un inno religioso è diventato una canzone di lotta, e adesso la canzone di lotta si scopre anche canzone d’amore. Ma il messaggio è sempre lo stesso: io, noi due, noi tutti, ce l’abbiamo fatta fin qui, e ce la faremo, ancora.

da il manifesto, 27 maggio 2006

26 maggio 2006

Come votare Alessandro Portelli

Fate clic sull'immagine per vederla a dimensioni reali.

Per votare Alessandro Portelli, sulla scheda azzurra barrate il simbolo di Rifondazione Comunista - Sinistra Europea e scrivete accanto il nome Portelli. Potete scrivere anche "Alessandro Portelli" o "Sandro Portelli".
Il vostro voto andrà automaticamente anche al candidato sindaco.

24 maggio 2006

Alcune immagini della festa di ieri









Fate clic sulle immagini per vederle a grandezza naturale.
Nei prossimi giorni arriveranno altre immagini.

19 maggio 2006

Appuntamento per il 24 maggio


Fai clic sull'immagine per vederla a dimensioni normali.

Guarda gli altri appuntamenti con Alessandro Portelli.

17 maggio 2006

Gli anziani obiettori di Manchester

Si riuniscono ogni anno, anche se in pochi e sempre più in età, per rivendicare il diritto di rifiutare di uccidere e ricordare il coraggio civile di chi ha pagato questa scelta con la libertà

Manchester, Inghilterra, domenica, da poco passato mezzogiorno. Esco da un internet cafè e mi avvio in cerca di un posto dove mangiare qualcosa. Il Liverpool ha vinto rocambolescamente la Coppa d’Inghilterra, i giornali informano di altri due soldati inglesi morti in Irak. Fa freddo, dopo giorni di insolito sole. In uno slargo dietro la cattedrale, mi attirano le voci di un coro. Inevitabilmente, mi accosto. L’unica parola che distinguo è “freedom,” libertà. Una quarantina di persone in cerchio, per lo più coi capelli bianchi; alcuni sono chiaramente troppo vecchi per stare in piedi e gli hanno portato delle sedie. Sono pochi, in mezzo alla grande piazza vuota, ma emanano quella tranquilla dignità, molto protestante, di chi non ha bisogno di far parte di una moltitudine per affermare un messaggio morale. Mi ricordano, e forse anche sono, quei sopravvissuti di un’antica sinistra che qui come negli Stati Uniti continuano a incontrarsi per ricordare e ribadire le loro antiche ragioni. Dietro di loro, un cartello su un cavalletto: “Per tutti coloro che hanno affermato e affermano il diritto di rifiutare di uccidere.” È la giornata internazionale dell’obiezione di coscienza, e io, come quasi tutti, non lo ricordavo. Ma loro sì.

Una statua di pietra nera
Alle spalle del gruppo, su tre gradini di piedistallo, una statua di pietra nera, una donna circondata da piccioni, o forse colombe. Alcuni li ha in grembo, altri becchettano sui gradini dove è distesa una bandiera arcobaleno, chissà se venuta dall’Italia, con la scritta “peace”. Passa poca gente, rallentano interessati e rispettosi, e tirano dritto. Si ferma un gruppetto di ragazzine coi vestiti della domenica e i palloncini in mano, dirette forse a qualche compleanno; una donna del gruppo si ferma a parlare con loro, dà un volantino alla signora che le accompagna; restano qualche minuto e poi continuano verso la loro festa. L’unico che si è fermato fino alla fine sono io – anche perché comunque non sto andando da nessun’altra parte.
Tutti i partecipanti alla cerimonia, in cerchio, hanno in mano un garofano bianco. Quando ne danno uno anche a me mi rendo conto che su ciascun gambo è attaccata una striscetta con un nome. Il mio si chiama Valentin Gulai. Prende la parola Malcolm Pittock, smilzo, canuto, abiti blu come da lavoro. “Ormai sono rimasti in pochi di quelli che hanno fatto obiezione di coscienza durante la guerra,” dice guardando intorno ai presenti più anziani di lui. “Restiamo soprattutto noi che l’abbiamo fatto nel dopoguerra.” Lui ha fatto obiezione nel 1949; gli hanno proposto diversi servizi alternativi, la forestale o altro; “ma io volevo affermare un principio, e fare il servizio alternativo sarebbe stato un riconoscimento del loro diritto di dirmi che cosa dovevo fare. Io volevo affermare un principio elementare che mi avevano sempre insegnato: che uccidere è una cosa malvagia.” Il processo si trascina per anni, finisce in carcere nel 1954. “Come ho fatto a spiegarlo a mia madre? Le ho detto, la nostra vicina di casa è straniera: ti andrebbe che mi reclutassero per ammazzare il figlio della tua vicina?”
Malcolm, però, ha anche un tradizione familiare che, secondo uno schema più frequente di quanto si pensi, non si trasmette linearmente dai genitori al figlio, ma lateralmente, come una mossa del cavallo: “Durante la prima guerra mondiale, mio zio materno, al fronte in Francia, rifiutò di continuare a sparare. Lo arrestarono, lo condannarono alla fucilazione; poi Lloyd George, primo ministro, gli commutò la pena in dieci anni di carcere. Alla fine della guerra lo lasciarono andare.”

Dai nazisti ai quaccheri
Ne prende lo spunto per ricordare la lunga storia dell’obiezione di coscienza, dagli obiettori nella Germania nazista ai testimoni di Geova, dal pacifismo dei Quaccheri ai soldati inglesi che sono in prigione per avere rifiutato di continuare a combattere in Irak. Invita a scrivergli, e a scrivere agli obiettori di coscienza che sono ora in carcere negli Stati Uniti: “quando ero in carcere ho ricevuto centinaia di lettere e sono state un grande aiuto per continuare a resistere.” Cita le parole di Mark Plowman (se ho capito bene i nome), l’ultimo a fare obiezione di coscienza dopo avere combattuto in guerra: “L’esercito è una macchina che trasforma le persone in strumenti in mani altrui. Se continuassi a fare il soldato mi renderei responsabile del più grave dei crimini: distruggere la vita di centinaia civili, di persone che non conosco e non mi hanno fatto niente” (più tardi, un’altra oratrice ricorderà che dalla seconda guerra mondiale , da qua ndo l’arma principale è il bombardamento, in poi i civili sono la maggioranza delle vittime). Il volantino che mi hanno messo in mano ricordea Camilo Mejia, soldato americano, obiettore in Irak, condannato a un anno di carcere nel 2004; Ben Griffin, primo militare dei corpi speciali inglesi, che rifiuta di continuare a combattere in Irak una guerra che ritiene moralmente ingiusta; e Malcolm Kendall-Smith, medico dell’aeronautica, che ha rifiutato di tornare in Irak a combattere una guerra che considera illegale.

Obiezione fiscale alla guerra
Dopo di lui parla una donna più giovane, Birgit Vollm, che fa parte di un’organizzazione
per l’obiezione fiscale contro la guerra. “Dal 1960,” dice, “la coscrizione obbligatoria è stata abolita; ma se non ci arruolano più per andare a fare la guerra, ci arruolano facendoci pagare le tasse che le finanziano e la sostengono. Non ci vogliono come soldati, vogliono i nostri soldi per fare la guerra. Siamo tutti arruolati, nel momento stesso in cui paghiamo le tasse sui prodotti che compriamo tutti i giorni.” Ricorda l’esempio di Henry David Thoreau, il grande scrittore americano che nel 1848 scontò una storica e simbolica notte in prigione per essersi rifiutato di pagare le tasse per la guerra contro il Messico. “Le spese militari sono otto volte quelle per l’aiuto allo sviluppo. Oggi l’obiezione di coscienza passa per l’obiezione fiscale.”
La cerimonia continua con delle letture di poesie. Un po’ per l’accento del Nord inglese che non mi è familiare, un po’ perché il megafono da cui parlano è antidiluviano (e queste persone anziane hanno poca familiarità col microfono), un po’ anche perché il vento è salito e io sono controvento, capisco solo a sprazzi. Una donna legge una poesia che parla di fragole, non capisco bene come: “ci danno le fragole ma noi vogliamo solo la verità”. Un uomo anziano coi capelli arruffati legge come se fosse una poesia il testo di una canzone di Ewan McColl, il grande protagonista militante del folk revival britannico: “Più di ogni altra cosa volevo vedere il mondo, ma mi hanno fatto capire che l’avrei potuto fare solo con le armi in mano. Il testo è solo un poco aggiornato: “Preferisco restare tutta la via alla pompa di benzina,” dice adesso l’ultima strofa, “che vedere il mondo da dietro il mirino di un fucile sulle rive dell’Eufrate.” La gente applaude e lui av verte: “non ho finito, ne ho un’altra da infliggervi”; e, con la voce incerta della sua età ma con la convinzione dei suoi anni, canta una ballata di fine ‘700: la storia di un disertore, che è arruolato a forza nella marina come allora si usava, scappa, viene ripreso e costretto a “servire il re”. La canzone popolare continua a fare il suo dovere, anche in questa fredda giornata di Manchester. Più tardi il coro canterà tre canzoni, due africane e una hawaiana: invocazioni alle divinità della terra, agli antenati, alla pace, rese un po' tutte uguali ma sincere. Alla lontana, ricordano lo stile a cappella di gruppi come Ladysmith Black Mumbazo. Mentre cantano una canzone Xhosa, passa una coppia di africani; chissà che effetto gli fa, se la riconoscono, quest’Africa passata per le limpide voci del Manchester Community Choir.

Si chiamano i nomi sui fiori
Ma prima delle canzoni di chiusura c’è il culmine della cerimonia: la chiamata degli obiettori di coscienza i cui nomi sono sui nostri fiori. Sono nomi di tutti i paesi, di tutto il secolo. Chiamano in ordine alfabetico, dall’Albania alla Yugoslavia, dicendo qualche parola sulle persone chiamate. Il mio Valentin Gulai lo chiamano alla B di Bielorussia: è stato arrestato di recente, è ancora in carcere. Per l’Italia, nominano Pietro Pinna, arrestato e condannato due volte (a 10 e 6 mesi) nel 1949. Non ho idea di chi fosse. Nella lista dei paesi, chiamano persino il “Roman Empire”: Maximilianus, decapitato in Africa nel 295 dopo Cristo. Neanche di lui avevo mai sentito parlare.
Ad ogni chiamata, chi ha il fiore col nome si avvicina alla bandiera della pace sui gradini della statua e depone il fiore (i più anziani fqaticano anche a fae qjuei pochi passi, hanno bisogno di aiuto). È un rituale un po’ patetico e sentimentale, ma non è che ci siano molti altri modi di rendere omaggio. La chiamata dei nomi mi sembra una delle forme prevalenti della ritualità del nostro tempo – dalle Fosse Ardeatine alle Torri Gemelle, dal memoriale del Vietnam a Washington al monumento alle vittime del bombardamento del 19 luglio 1943 a San Lorenzo a Roma, si chiamano e si scrivono i nomi, uno per uno. La società di massa riconosce che in ognuna delle sue stragi gli uccisi sono persone singole, individui e non numeri di una statistica. Ogni massacro è anche una molteplicità di singoli omicidi.
Mentre mi allontano alla fine, vedo su un palo della luce un cartello, messo lì a suop tempo dalle autorità: azzurro cielo con una colomba bianca e la scritta, “Manchester city of peace”. Magari è solo un omaggio superficiale ai buoni sentimenti, magari la gente che ci passa non ci fa nemmeno caso. Ma questi coraggiosi vecchietti ogni l’hanno fatto diventare, almeno per un’ora, vero.

pubblicato su il manifesto, 20 maggio 2006

11 maggio 2006

Ci vediamo il 23 maggio


(fai clic sull'immagine per vederla a dimensioni reali)

09 maggio 2006

In risposta ad Alemanno

[…] “La verità? – dichiara Sandro Portelli – È che anche io non vorrei commentare le dichiarazioni di Alemanno. Sono davvero fuori luogo. E del resto queste battute le sentiamofare continuamente. Come fate a tenere insieme La Rosa nel Pugno e Rifondazione? Ma si vuole capire che la politica o per lo meno la “nostra” visione della politica è diversa da quella del centrodestra? Per noi le differenze sono ricchezza.” Portelli, docente di letteratura angloamericana, risponde quasi con stanchezza all’ennesima polemica sollevata da Alemanno, Si trova nella Casa della memoria e a presentare l’ultimo libro del circolo “Gianni Bosio” (“un anno durato due decenni, storie di persone comuni prima durante e dopo il ’68” edito da Odradek, ndr) di cui ha curato l’introduzione. “Ecco – spiega – ciò che non si vuole proprio capire è esattamente questo. L’esperimento tutto da realizzare anche per una città come Roma, anche se è un laboratorio politico in cui molto si è fatto, è proprio quello di capire il portato della cultura delle differenze. In definitiva – aggiunge – penso che sia essenziale stare insieme senza annullarsi creando una cultura dell’unificazione e del confronto aperto.” È questo del resto il metodo usato in tutta questa campagna elettorale. E su Roma le differenze contano. “C’è un’idea determinante – conclude – ed è quella che la città appartiene a tutti. E questa idea è importante non nel senso di una mediazione al ribasso ma nel senso più alto del termine”.

CM

da Liberazione, 9 maggio 2006

Viaggio in Comune contro i vuoti di memoria

Alessandro Portelli Storico della memoria, dell'altra America e dell'antifascismo, sarà capolista per il Prc a Roma
Loris Campetti

C'è una frase di Gianni Bosio che Alessandro Portelli ha scelto per spiegare il segno della sua candidatura come capolista (indipendente) per il Prc alle elezioni comunali romane del 28-29 maggio: «Il lavoro culturale è spinto così dalla logica della non integrazione a costruirsi le armi per difendere la possibilità di sopravvivere; il lavoro culturale non può che trasformarsi in lotta politica per propria difesa e perché la lotta politica diventa il livello più alto di ogni lavoro culturale». Questa frase, ci spiega il nostro amico, «esprime bene un'idea che ho in testa da tempo. Ogni volta che qualche studente mi domanda a cosa serva studiare la letteratura, mi chiedo cosa rispondere. Finalmente ho trovato la risposta: non serve a niente. La letteratura, come l'arte, la musica, la cultura sono un fine e non un mezzo». Portelli insegna letteratura americana alla Sapienza e è consigliere delegato del sindaco di Roma per la tutela e la valorizzazione della memoria storica della città. Ha insegnato passione e mestiere a una schiera di giovani ricercatori, Portelli vuol dire momoria orale, antifascismo, ci ha inegnato ad amare «l'altra America». Collabora con il manifesto dal '72.

Tra i tuoi allievi c'è chi si preoccupa per questa candidatura, temendo che il lavoro in comune possa sottrarre tempo al tuo impegno storico-sociale, alla ricerca scientifica: ti chiamano «uomo pedale» e anche «ricercatore scalzo». Hanno paura di perderti.
Quando alla fine ho accettato la proposta dei compagni di Rifondazione ho messo in chiaro che io non cambio vita, se uno sa fare i cento metri non gli puoi far correre i 400. Non smetterò di fare le cose che so fare, al contrario spero che dal consiglio esca qualche strumento in più e briciole di bilancio per continuare il lavoro sulla memoria e mettere insieme progetti con i soggetti di strada che si muovono, con la Casa della memoria, i centri sociali Snia Viscosa, Forte Prenestino, La Strada, con la Scuola popolare di musica di Testaccio, il circolo Gianni Bosio, l'Archivio audiovisivo del movimento operaio. Non rinuncerò alle mie passioni, al manifesto, all'insegnamento, alle cose che mi stanno a cuore.

Nelle tue «inchieste di strada» hai lavorato molto nei quartieri, anche quelli più disagiati. Anche a Roma il degrado si accompagna spesso a uno spostamento a destra, anche estrema, dell'elettorato. Eppure, in molti di quei quartieri romani c'era una forte tradizione antifascista.
Credo che più della pervasività del messaggio revisionista abbia pesato la mancanza di un messaggio alternativo della sinistra che ha via via mollato l'antifascismo. Ha ragione il gappista Rosario Bentivegna quando dice «il partito ha sempre detto la verità (su via Rasella e le Fosse ardeatine, ndr) ma non ha controbattuto le menzogne degli altri». Io so che quando vado nelle scuole a parlare di antifascismo i ragazzi mi stanno a sentire. Dobbiamo avere più coraggio nel sostenere le nostre idee, non si deve chiedere scusa a nessuno ma rivendicare la nostra storia, certo senza l'arroganza di essere i depositari della verità. Per esempio, questa alleanza precaria che ha vinto le elezioni potrebbe trovare un collante proprio nell'antifascismo.

Pensi che le istituzioni, il comune, possano aiutare una battaglia culturale come la intendi tu?
Senza miagolii e deleghe, senza dimenticare il lavoro che dobbiamo fare in strada, le istituzioni devono contribuire a creare un clima migliore. A Roma qualcosa di positivo è stato fatto sulla memoria. Veltroni è un buon sindaco, è uno che ti dà l'impressione che la musica e i libri gli piacciano sul serio. Quando portiamo i ragazzi ad Auschwitz, Veltroni che parla con i ragazzi è autentico. E poi a Roma ci sono esperienze importanti nei quartieri, pensa al lavoro di Sandro Medici a Cinecittà. A Roma si intravede qualche cambiamento, proviamo a farlo anche a livello nazionale.

Ma le periferie restano a rischio e alcuni ceti su cui la sinistra era egemone sono tentati dal populismo di destra.
Ti meravigli? Io mi meraviglio che a Roma il fenomeno sia tutto sommato contenuto. Il giorno in cui la sinistra dice che bisogna stare dalla parte dei ceti emergenti, e sposa l'etica del mercato, e ci fa sapere che la Nato è la nostra salvezza, e giù con la competitività e tutte queste parole che mi danno il voltascomaco, ti chiedi perché nelle borgate la sinistra arretra? Su quel versante lì la destra offre migliori garanzie. Ti sembra normale che nell'Unione ci si debba preoccupare per la critica di Epifani alla legge 30, o di Bertinotti allo strapotere di Mediaset? Ti pare che si debba avere paura di Zapatero, che oltre tutto ha vinto?


da il manifesto, 9 maggio 2006

06 maggio 2006

We Shall Overcome. The Seeger Sessions , il nuovo disco di Bruce Springsteen è l’incontro – imprevedibile e inevitabile – fra due giganti della musica e della cultura americana: un rocker archetipico come Bruce Springsteen e la voce di quasi settant’anni di canzone popolare e politica, come Pete Seeger. Imprevedibile perché l’industria musicale tiene tengono i generi separati come feudi incomunicanti; inevitabile perché ci dimostra l’unità profonda della musica americana. Banjo bluegrass, piano honky tonk, fiati dixieland, coralità gospel, energia vocale rock stanno insieme in un disco che, come nel meglio della cultura popolare, coniuga festa e coscienza, socialità e resistenza, realismo e speranza in una performance corale e praticamente dal vivo.

Se uno sa ascoltare, sa da sempre che fra il rock e le radici popolari non esistono cesure e fratture, ma una storia di evoluzione, trasformazione, cambiamento. Questo disco lo ribadisce fin dalla prima canzone: Ol’ Dan Tucker, scritta nel 1844 da Dan Emmett e subito immensamente popolare, voiene dall’umorismo iperbolico della frontiera, ma è soprattutto un prodotto di quel minstrel show col quale inizia un’ambigua tradizione di assunzione del nero nella musica bianca – una tradizione il cui punto d’arrivo è, guarda caso, proprio il rock and roll (e viceversa: che cos’è il dixieland, che suona nei fiati di questo disco, se non l’appropriazione nera di strumenti europei, nella più sincretica delle città americane, New Orleans? E il nomignolo “Dixieland” che designa il Sud deriva da una canzone di Dan Emmett…).

Perciò le fonti del rock and roll stanno nella musica profonda dello spiritual (Mary Don’t You Weep, Jacob’s Ladder), delle migrazioni (Mrs. McGrath), delle canzoni di lavoro (Erie Canal, John Henry, Pay Me My Money Down), delle filastrocche per bambini (Froggie Went a-Courtin’), della frontiera (Jesse James, Shenandoah, My Oklahoma Home), dei movimenti di liberazione (Eyes on the Prize, We Shall Overcome). Pete Seeger e Bruce Springsteen, e attraverso di loro ancora Dan Emmett, Woody Guthrie, Guy Carawan – non hanno fatto altro che cantare, a modo loro, l’America che vedevano e quella che speravano di vedere.

Mi hanno raccontato che qualche anno fa alla Rounder Records (un’etichetta di Boston) si presentò un ragazzotto locale: “Vorrei fare un disco con voi”. “Che musica fai?” “Rock and roll”. “Ma noi facciamo solo musica tradizionale”. “Be’, io faccio rock and roll tradizionale”. Si chiamava George Thorogood, e il disco si fece.

Ci ho ripensato perché We Shall Overcome mi ha fatto capire una ragione della mia passione per Bruce Springsteen: fin dall’inizio, infatti, lui suona e canta il rock and roll come se fosse musica tradizionale: un linguaggio musicale elaborato e condiviso socialmente, riconoscibile collettivamente e proprio per questo capace di raccontare vite singole, come le canzoni narrative di tradizione orale (e tante canzoni di Springsteen hanno un impianto più narrativo che lirico, raccontano storie più che effondere sentimenti). Era una musica che non cercava di essere innovativa e per questo ha fatto storcere il naso a più di un critico; ma era una musica fatta per durare, e infatti c’è ancora.

Era anche una musica capace di evolversi osmoticamente, restando se stessa ma mai identica, proprio come nella musica tradizionale – e come Bruce Springsteen: una persona che ha delle curiosità, che legge, che impara, che cresce. Forse nella storia del rock solo i Beatles sono stati così, loro con l’India e lui con le profondità della sua America. Penso all’impressione che mi fece, nel set quintuplo dal vivo, sentirlo spiegare This Land Is Your Land di Woody Guthrie (“è una canzone piena di rabbia”, non un inno patriottico) e dire che l’aveva capita leggendo un libro. Quanto spesso ci capita di sentire un rocker parlare di libri in un concerto? E poi legge Journey to Nowhere e ne tira fuori Youngstown, vede Furore e scrive The Ghost of Tom Joad… Non è nato intellettuale, non è nato con una coscienza sociale; ha imparato invecchiando (come quei “giovani ribelli” che finiscono di essere giovani ma non smettono di essere ribelli – anzi, trovano ragioni nuove e più profonde), gradualmente, in modo quasi riluttante.

Lui rifiuta di dire che questo è un disco “politico”; ma la politicità è intrinseca a questa musica. Non è solo We Shall Overcome, canzone simbolo dei diritti civili (e originariamente uno spiritual cantato da braccianti in sciopero in North Carolina). Sono l’incredulità di una madre davanti al corpo del figlio spezzato dalla guerra (Mrs. McGrath), la figura mitica del bandito sociale che ruba ai ricchi per dare ai poveri (Jesse James), l’orgoglio dell’operaio nero che si ammazza ma non la dà vinta alla tecnologia del padrone bianco (John Henry), l’ironica rivendicazione di Pay Me My Money Down (fuori i soldi: sembra la variante caraibica di Sciur parun da li beli braghi bianchi, con la stessa inflessibilità e la stessa ironia gioiosa).

Altre tre canzoni collegano la resistenza alla schiavitù con la lotta per i diritti civili attraverso il linguaggio di libertà dello spiritual. In Mary Don’t You Weep, forse il brano più travolgente del disco (c’è sempre una Mary nei dischi di Bruce Springsteen, da Thunder Road a Mary’s Place), l’annuncio dell’apocalisse – “questo mondo comincerà a scuotersi e tremare”, “reel and rock” - acquista un nuovo accento quando la parola “rock” la riprende il rocker Bruce Springsteen: l’apocalisse è la rivoluzione ma è pure una festa, una rivoluzione che si può ballare. We Are Climbing Jacob’s Ladder è l’assalto al cielo, gradino per gradino sulla scala di Giacobbe verso il paradiso e la libertà. La più radicale è Keep Your Eyes on the Prize: non perdere di vista il sogno, “hold on”, aggrappati, resisti. Forse proprio We Shall Overcome è meno entusiasmante; però il modo intimista con cui la canta Bruce Springsteen (come Piero Brega in Su comunisti della capitale) conferma un’intuizione presente già in classici come Badlands: il “noi” sociale comincia nel rapporto d’amore, già la coppia è una minisocietà che rompe con l’individualismo egoista – “Darling, we shall overcome”.

Anche stavolta, come per mantenere il senso delle proporzioni, Springsteen finisce un disco “serio” con una canzone scherzosa – come già in Tom Joad o Human Touch. Bruce Springsteen ha detto che una delle cose che apprezza in Pete Seeger è il fatto che ha sempre dedicato canzoni e concerti ai bambini (e lo stesso vale per Woody Guthrie: le sue Songs to Grow On non sono meno belle, e meno politiche, delle Dust Bowl Ballads). Chissà, un mondo migliore comincia già nel modo con cui giochiamo coi bambini.

Il giorno dopo l’uscita del disco, mi è arrivato un e mail di uno studente: “Non mi rendevo conto di quanto fosse mediocre il mondo, prima che uscisse questo disco”. Per la maggior parte di chi lo sente oggi, queste canzoni sono una scoperta. Per me (mi si conceda una nota personale), sono le canzoni con cui sono diventato adulto, che mi hanno appassionato alla politica, alla storia e alla libertà, e mi hanno spinto a ricercare le canzoni nostre. A diciott’anni sentivo Pete Seeger; a sedici, sentivo Elvis Presley,Jerry Lee Lewis e Little Richard. Grazie Bruce, per avere rimesso tutto insieme e avermelo riportato a casa.

05 maggio 2006

Appuntamenti

Domenica 21 magio ore 20
Parco Nemorense
Comizio di chiusura della Festa di Liberazione del II Municipio

Partecipano:
Givanni Russo Spena - Senatore di Rifondazione Comunista
Alessandro Portelli - Capolista di Rifondazione Comunista alle elezioni comunali
Neda Graziani - Capolista di Rifondazione Comunista nel II Municipio


Martedì 23 maggio ore 16
Casa della Memoria e della Storia - via San Francesco di Sales 5
Presentaizone del libro Le Brigate Matteotti a Roma e nel Lazio. Il contributo dei socialisti nella Resistenza Laziale, a cura di Davide Conti, edizioni Odradek

Intervengono:
Giuliano Vassalli (Presidnete Emerito della Corte Costituzionale)
Carlo Vallauri (Università di Siena)
Alessandro Portelli (Università di Roma "La Sapienza")
Davide Conti (Università di Roma "La Sapienza")
Giulia Rodano (Assessore alla Cultura della Regione Lazio)

Info: 06 6876543


Martedì 23 maggio - ore 21,00
Teatro Ambra Jovinelli
Spettacolo per la chiusura della campagna elettorale di Sandro Portelli

Interverranno tra gli altri:
Piero Brega
Ascanio Celestini
Sylvie Genovese
Sara Modigliani
Paolo Pietrangeli
Auriko
Quartetto urbano (Xavier Rebut, Germana Mastropasqua, Michele Manca, Flaviana Rossi)
Ambrogio Sparagna

Presenta: Vladimir Luxuria

Interviene Franco Giordano, Segretario generale di Rifondazione Comunista



Mercoledì 24 maggio ore 20.00
PIAZZA RECANATI
La memoria storica delle lotte sociali per la costruzione di un mondo più giusto

Intervengono:
SANDRO PORTELLI
DANTE POMPONI
Candidati al Consiglio Comunale di Roma

CARLA CORCIULO
Candidata al Consiglio del V° Municipio di Roma

Partecipano:
LUIGI NIERI
Assessore al Bilancio della Regione Lazio
MARIA CRISTINA PERUGIA
Parlamentare e Segretaria della Federazione di Roma

Saranno presenti i candidati del Circolo di San Basilio al Consiglio del V° Municipio

A conclusione della manifestazione
Concerto di PIERO BREGA (del CANZONIERE del LAZIO)


Giovedì 25 maggio ore 21.00
PIAZZA NAVONA
Chiusura della campagna elettorale di Rifondazione Comunista

Revisioni da talk show

Mi diceva qualche anno fa Rosario Bentivegna, medico del lavoro, gappista romano, protagonista della battaglia di via Rasella: “Dopo la guerra, il partito disse sempre la verità su via Rasella e sulle Fosse Ardeatine; quello che non fece, fu di confutare le menzogne e le mistificazioni che erano state diffuse su quegli avvenimenti.” Le menzogne e le mistificazioni le sappiamo tutti: la falsa notizia secondo cui, dopo l’azione partigiana in Roma occupata in cui morirono 33 componenti di un battaglione di polizia aggregato alle SS, i tedeschi avrebbero messo cartelli per tutta Roma invitando i “colpevoli” a consegnarsi per evitare la rappresaglia. Sappiamo, o dovremmo sapere, che questa è pura invenzione: persino il generale Kesserling, interrogato in tribunale, disse che non ci avevano mai nemmeno pensato; la rappresaglia fu decisa subito, mai condizionata alla resa dei partigiani, e fu comunicata alla popolazione solo dopo che la strage era stata compiuta.

Una delle tante ragioni per ammirare Rosario Bentivegna è che, in assenza di una chiara risposta politica e storiografica a queste menzogne, da più di mezzo secolo si fa carico puntigliosamente di ristabilire la verità, di confutare le mistificazioni, e di difendersi e reagire in ogni sede (compresi i tribunali) alle demonizzazioni di cui lui e i suoi compagni sono stati oggetto.

È un lavoro di Sisifo, e ogni volta sembra che si deve ricominciare da capo. Stavolta, la falsificazione proviene dal gran cerimoniere dei riti televisivi, Bruno Vespa, che per qualche misteriosa ragione (o meglio: per ragioni di cassetta e per ragioni di manipolazione ideologica) ha deciso di improvvisarsi storico senza possedere neanche l’ombra dei requisiti minimi del mestiere – ma, direi, senza possedere neanche l’ombra di quella curiosità intellettuale e desiderio di verità che dovrebbe animare non solo lo storico, ma almeno il giornalista serio. Quando Nicola Gallerano parlava di “uso pubblico della storia” aveva in mente cose ben più serie che questi bestseller di quart’ordine.

Così, nella sua Storia d’Italia da Mussolini a Berlusconi, Vespa racconta per l’ennesima la vulgata antipartigiana su via Rasella senza neanche prendersi la cura di informarsi sui fatti e di leggere la bibliografia aggiornata. Perciò, ai vari errori sulla ricostruzione dell’evento aggiunge la ripetizione della solita accusa a Bentivegna e compagni di non essersi presentati in risposta ai manifesti fatti affiggere dai nazisti che li invitavano a farlo. E anche stavolta, Bentivegna prende la penna in mano e, instancabile, cortese e chiarissimo, spiega, precisa, rettifica come ha fatto centinaia di volte nella sua vita. Comincia un carteggio, prima privato poi pubblico (anche sulle pagine dell’Unità) che adesso Bentivegna, con il consenso del suo interlocutore, ha trasformato in un libro: ViaRasella la storia mistificata. Carteggio con Bruno Vespa (manifestolibri, 2006, pp. 116, E. 15), con un’introduzione puntuta e puntuale di Sergio Luzzatto, un’ennesima ricostruzione fattuale di che cosa veramente successe e poi, irritante e soffocante, il dialogo mancato fra Bentivegna che spiega e Vespa che fa finta di non capire. O forse non fa finta per niente.

Sono anni che mi occupo di via Rasella e delle Fosse Ardeatine, e ogni volta mi trovo davanti allo stesso meccanismo. È un po’ come la storia del lupo e dell’agnello: c’è una conclusione precostituita e, se un argomento per sostenerla viene meno (“mi intorbidi l’acqua”) se ne inventa un altro, più specioso ancora (“hai parlato male di me”) e poi un altro e un altro e un altro, all’infinito. Lo stesso vale per via Rasella, anche nel caso di Vespa: costretto ad ammettere che i manifesti non ci furono, si inventa che però i partigiani dovevano sapere che ci sarebbe stata la rappresaglia perché i nazisti avevano preavvertito (e non è vero neanche questo, e risulta dalle parole dello stesso Kappler), poi che i poveri poliziotti in uniforme nazista erano in realtà degli italiani padri di famiglia (come se vestire l’uniforme di un esercito occupante non fosse un’aggravante, per un italiano; e come se l’età media dei poliziotti del Bozen non fosse in realtà di 33 anni) e via arrampicandosi sugli specchi pur di non rinunciare all’unica cosa che gli interessa: negare il significato dell’azione partigiana e con essa di tutta la Resistenza. Per questo ha ragione Luzzatto quando parla di “dialogo fra sordi”. In realtà, Bentivegna ascolta e replica, ma dall’altra parte c’è un sordo che non vuole sentire.

Qui infatti non si tratta solo di banale revisionismo, ma dell’idea di una continuità storica in

nome dell’”odio” e della “guerra civile” che accomuna le leggi razziste, la guerra partigiana, gli anni di piombo e l’opposizione a Berlusconi dentro un unico paradigma: sia i partigiani che attaccavano militarmente i nazisti sia il centrosinistra che attacca politicamente Berlusconi sarebbero mossi dagli stessi impulsi. Chiaro che in questa continuità la Resistenza è una spezzatura: infangare la Resistenza, dunque, non serve solo a erodere ulteriormente l’eredità dell’antifascismo ma soprattutto a fare dell’opposizione a Berlusconi l’espressione di atavismi profondi e irrazionali, il “fiume carsico” (scrive Vespa) di una guerra civile ora esplosiva, ora strisciante. Come fa notare Luzzatto nell’introduzione, elencando i titoli delle annuali strenne di Vespa: “presi uno per uno, i titoli dei libri di Vespa scandiscono ogni voltga un presunto momento epocale, quando non suggeriscono un’emergenza nazionale o addirittura una crisi rivoluzionaria. Presi in serie, viceversa, essi alludono alla consolante evidenza per cui tutto cambia, più tutto è la stessa cosa…”

Alla fine, Vespa non sa più che pesci prendere, e si limita a ripetere che “l’attentato di via Rasella fu un gravissimo errore.” La risposta finale di Bentivegna è tagliente: “Credo nella sua buonafede,” concede, “ma il problema dei problemi è che lei ha dato una versione non corretta dei fatti, condita di insinuazioni e ambiguità, perché aveva orecchiato le consuete mistificazioni e le ha riportate senza la necessaria verifica”.

Intelligentemente, Bentivegna non si limita a rettificare la versione con corretta dei fatti, ma smaschera anche l’uso non corretto, strisciante, del linguaggio: contesta il termine “rappresaglia” applicato alle Fosse Ardeatine (e ha ragione, tecnicamente e giuridicamente: secondo il tribunale militare italiano, non si trattò di rappresaglia bensì di “omicidio continuato”), coglie le implicazioni retoriche di espressioni come il “gesto” che gli viene attribuito, come se non si fosse trattato di un’azione di guerra ma dell’alzata di capo di un isolato irresponsabile, smaschera il presupposto implicito secondo cui avrebbe dovuto “pentirsi” di quello che aveva fatto. E d’altra parte, l’intera modalità comunicativa di Vespa, dal linguaggio del corpo in TV alla retorica dei suoi libri, reca nel degrado del linguaggio il segno del danno profondo che arreca alla nostra cultura. In questo senso, il lavoro di Bentivegna non è solo l’ennesima doverosa puntualizzazione storica, ma anche un atto importante di resistenza, sia pure con la minuscola, allo strapotere egemonico del discorso televisivo: i libri di Vespa sono vangelo non perché siano attendibili ma perché il loro autore sta in TV. Qualche tempo fa, sulla metropolitana di Roma, c’era una ragazza sprofondata nella lettura di uno dei tomi di Vespa, con tanto di evidenziatore. Non sono riuscito a capire se quello che sottolineava fossero gli sfondoni del libro, o quelle che lei scambiava per storiche verità o perle di saggezza. Temo che sia buona la seconda. Il libro di Vespa sulla metropolitana è l’aggiornamento dei canali attraverso cui si è formato il senso comune antipartigiano su via Rasella: riviste da parrucchiere, pamphlet fascisti, dicerie incontrollate. Tutti canali troppo a lungo considerati al disotto dell’attenzione degli storici seri, e persino della politica seria; per questo, hanno potuto continuare a diffondersi per decenni, navigando sotto il radar della vigilanza culturale e del dibattito storiografico. Temo che Vespa sia la stessa cosa: troppo poco serio perché gli storici seri si prendano la briga di smontarlo pubblicamente come sarebbe loro dovere. Anzi, persino rispettabili istituzioni romane hanno ritenuto opportuno allestire presentazioni e dibattiti, come se questi libri fossero una cosa seria.

Per fortuna ci sono persone come Rosario Bentivegna. E per fortuna questo suo libro è accompagnato, stavolta, dall’intervento di uno storico serio che prende atto del rischio di una memoria storica affidata agli ignoranti e ai manipolatori. Quella fra Vespa e Bentivegna non è una battaglia ad armi pari, dato lo strapotere mediatico dell’uno e la sostanziale solitudine dell’altro. Sarebbe il caso di dare una mano a Bentivegna, perché qui non è in gioco solo la sua personale responsabilità, né la moralità della resistenza, ma proprio la nostra capacità di rapportarci criticamente alla storia e di usare responsabilmente il linguaggio. Scrive Luzzatto: “Lo scopo del gioco [di Vespa, ma – aggiungerei io, di tutto quello che lui rappresenta] è la banalizzazione retrospettiva dei valori e dei disvalori, dei meriti e delle bassezze, delle ragioni e dei torti. La durata del gioco resta da determinare; ma finché uomini come Rosario Bentivegna conserveranno la forza per opporvisi, uomini come Bruno Vespa faranno bene a non sentirsi la vittoria in tasca.”

da il manifesto, 25 aprile 2006

04 maggio 2006

Una proposta di lavoro culturale

Il lavoro culturale è spinto così dalla logica della non integrazione a costruirsi le armi per difendere la possibilità di sopravvivere; il lavoro culturale non può che trasformarsi in lotta politica per propria difesa e perché la lotta politica diventa il livello più alto di ogni lavoro culturale.
(Gianni Bosio)

Inaspettatamente, i compagni di Rifondazione Comunista mi hanno proposto la candidatura come capolista per l’elezione del Consiglio Comunale di Roma il 28-29 maggio. Dopo averci pensato sopra, ho deciso di accettare. Per due ragioni:
- per contribuire, come indipendente ma non come isolato, a un’esperienza positiva di governo della città a cui Rifondazione Comunista ha dato un contributo positivo di unità nell’autonomia e nel dialogo;
- per continuare, con qualche strumento in più (per esempio, nella Commisisone Cultura), il lavoro di organizzazione culturale che ho svolto in questi anni come consigliere delegato per la memoria storica, oltre che nell’università, nel Circolo Gianni Bosio, nell’Istituto Romano per la Storia della Resistenza, nella Casa della Memoria e della Storia.

… questa città ribelle e mai domata…

Il lavoro culturale è lavoro politico soprattutto in tempi in cui l’offensiva berlusconiana fa del degrado culturale, del revisionismo storico, della corruzione del linguaggio strumenti diretti di dominio e di potere. Le condizioni di ogni lavoro culturale, e di ogni piacere culturale, sono la libertà, l’uguaglianza, la pace, la ricerca della verità. In due parole: antifascismo e democrazia. La Resistenza è stata anche una grande esperienza culturale: come dice la canzone partigiana, Roma non è mai stata una città sottomessa, una città docile, e nella sua cultura sono radicate le conquiste e i sogni del movimento operaio, della lotta per la casa, delle lotte sociali e studentesche che hanno fatto la storia di Roma dal dopoguerra a oggi.

…anche l’operaio vuole il figlio dottore…
(Paolo Pietrangeli)

La cultura non scende dall’alto; la cultura la facciamo tutti, ogni giorno. Perciò la cultura a Roma sono le grandi istituzioni, i monumenti di cui siamo tutti orgogliosi, ma sono anche Centocelle, Val Melaina, Donna Olimpia, Casalotti, Pietralata... ; sono i grandi eventi, l’Auditorium e la Notte Bianca, ma sono anche la storia orale, la musica popolare dalla tradizione orale al rock, i saperi del lavoro e della vita quotidiana, le storie fatte in casa che ci raccontiamo fra noi, che ascoltiamo tutti i giorni in autobus, in strada o in metropolitana; sono il teatro di Ascanio Celestini, la musica di Giovanna Marini. Fare cultura significa lavorare per periferie più vivibili; per un’aria più respirabile e un tempo meno soffocante; per vite meno precarie; per spazi aperti e accessibili di creazione e di fruizione di tutte le espressioni culturali; per una scuola pubblica e un’università capaci di costruire quell’uguaglianza di possibilità e di speranze che proclama la nostra preziosa Costituzione e che la destra più arrogante trova ancora scandalose.

… tutto sta scolpito nella memoria…
(Leon Gieco)

Memoria significa ricordare, cioè richiamare al cuore, ai sentimenti, il valore di quello che siamo stati e quello che vogliamo diventare; ma significa anche rammentare, riportarlo alla mente, all’intelligenza; e rimembrare, riportarlo al corpo, ai sensi, rimettere insieme quello che l’alienazione quotidiana e la manipolazione mediatica hanno frammentato (“rammendare”?). Nella Casa della Memoria e della Storia la memoria vivente della Resistenza si incontra con la ricerca storica e culturale in un lavoro quotidiano che serve più a cambiare che a conservare, che elabora e trasforma e che prepara, attraverso la cittadinanza vigile di oggi, la memoria del presente per il futuro.

… nostra patria è il mondo intero, nostra legge è la libertà…

Roma è una città-mondo, e una città che appartiene al mondo. Roma è per l’incontro e il dialogo fra le molteplici differenze di cui siamo fatti, anche quando è difficile e faticoso. La presenza attiva degli immigrati, il dialogo interreligioso nello stato laico, il ruolo fondamentale della comunità ebraica hanno trasformato in questi anni i modi e i nodi della nostra convivenza e fatto crescere la nostra coscienza civile. Lavoro culturale significa liberare Roma dai razzismi e dalle discriminazioni. E dire, con la nostra Costituzione e con la nostra coscienza, no alla guerra.

Chi sono

Sono nato a Roma nel 1942. Di mestiere, insegno letteratura americana alla Facoltà di Scienze Umanistiche dell’Università la Sapienza. Ho svolto l’incarico di Consigliere delegato del Sindaco di Roma per la tutela e la valorizzazione delle memoria storiche della città; ho fondato e presiedo il Circolo Gianni Bosio per la conoscenza critica e la presenza alternativa delle culture popolari; faccio parte del consiglio direttivo dell’IRSIFAR (Istituto Romano per la Storia d’Italia dal Fascismo alla Resistenza) e ho la tessera dell’ANPI. Collaboro al manifesto fin dal 1972, e ho scritto spesso anche su Liberazione e l’Unità.
Ho studiato, insegnato e diffuso la cultura dell’America a cui vogliamo bene – quella di Woody Guthrie, Pete Seeger, Bob Dylan, Bruce Springsteen, di Malcolm X; Martin Luther King, Cindy Sheehan; Mark Twain, Don DeLillo, Spike Lee, Woody Allen. Ho raccolto le canzoni popolari e politiche e la memoria storica orale di Roma e del Lazio, collaborando con il Canzoniere del Lazio, Giovanna Marini, Sara Modigliani, Piero Brega, Ascanio Celestini. Ho conosciuto i partigiani e le partigiane di Roma e i familiari degli uccisi delle Fosse Ardeatine, e dai loro racconti ho messo insieme la loro storia. Ho ascoltato i racconti delle borgate e dei quartieri popolari, dalle occupazioni delle case degli anni ’70 alla storia orale di Centocelle. Ho cercato di non limitarmi a studiare e a scrivere, ma anche di organizzare cultura: mettere in piedi strutture (dal Circolo Bosio alla Casa della Memoria); fondare e far vivere riviste; condividere con gli altri, attraverso dischi e libri, quello che ho imparato; coinvolgere persone più giovani e aprirgli spazi; organizzare eventi, concerti, incontri. Ho accompagnato gli studenti romani ad Auschwitz, ho girato decine di scuole per parlare della memoria, della democrazia, dell’antifascismo. E ho voglia di continuare a farlo.
Le mie passioni sono l’uguaglianza, la libertà, l’insegnamento, la musica popolare, la memoria, ascoltare i racconti delle persone, i libri e i film, e il rock and roll.