27 ottobre 2006

Il 2 novembre alle 16:00,
presso la Casa della Memoria e della Storia
via San Francesco di Sales 5 Roma

il Circolo culturale Gianni Bosio,
con la promozione dell'Assessorato alla Cultura del Comune di Roma,

presenta il disco

"Le ceneri di Gramsci"
di Pier Paolo Pasolini
musica di Giovanna Marini
Esecuzione musicale del Coro Arcanto diretto da Giovanna Giovannini
Produzione di Angelica Festival di Bologna di Musica Contemporanea
Produzione esecutiva Valter Colle di Udine.

Interverranno alla presentazione Graziella Chiarcossi, nipote ed erede delle opere di Pier Paolo Pasolini, Alessandro Portelli, consigliere delegato alla memoria storica del Comune di Roma e l'autrice del disco Giovanna Marini.

L'iniziativa anticipa lo spettacolo-oratorio "Le ceneri di Gramsci" che avrà luogo al teatro Argentina, alle ore 21 dello stesso giorno, con musica di Giovanna Marini, voci del Coro Arcanto diretto da Giovanna Giovannini e del Coro del corso di Estetica del Canto Contadino diretto da Giovanna Marini - L'esecuzione attuale è un adattamento del "concerto scenico" di Giuseppe Bertolucci e Luisa Grosso

12 ottobre 2006

Prendiamo O Mary Don’t You Weep, il classico spiritual che Bruce Springsteen canta nel suo ultimo disco, We Shall Overcome. The Seeger Sessions. Comincia così: “If I could, I surely would \ stand on the rock where Moses stood”: se potessi, vorrei salire anch’io sulla roccia dove salì Mosè. E’ un riferimento alla storia dell’Esodo, tradizionale metafora di liberazione per gli schiavi afroamericani e poi per il movimento dei diritti civili che ritroviamo in tutto il repertorio dello spiritual e del gospel (il ritornello dice, “Maria non piangere, l’esercito del Faraone è annegato, non piangere Maria”).

Andiamo avanti, alla terza strofa. “One of these nights about twelve o’clock \ this old world is gonna rock”: una sera di queste, verso mezzanotte, il vecchio mondo tremerà. E’ un’altra profezia di un cambiamento traumatico, rivoluzionario, che scuoterà il vecchio mondo e lo farà tremare fin dalle fondamenta.

Però, in bocca a Bruce Springsteen, quella parola assume un altro significato ancora: rock\roccia, rock\scuotersi, e, naturalmente e inaspettatamente, rock\and roll (in molte varianti di”O Mary don’t you weep”, infatti si canta “this world is gonna reel and rock”, oscillerà e tremerà): una di queste sere, insomma, il vecchio mondo di scuoterà di dosso la vecchiaia e ballerà il rock and roll e sarà libero.

Certo, i creatori afroamericani di questo canto nell’800 non avevano ancora in mente il rock and roll, ma anche loro si scuotevano e tremavano nella passione estatica e musicale del rito – e infatti il rock and roll viene direttamente dalla loro cultura e dalla loro storia, dalle chiese pentecostali ed evangeliche del profondo Sud. Bruce Springsteen questo lo ha capito perfettamente, e non è un caso che già nel disco e concerto newyorkese di qualche anno fa si fosse rivolto al pubblico con lo stile oratorio dei grandi predicatori evangelici, annunciando un “battesimo rock and roll, un bar mitzvah rock and roll”, appropriando al rock and roll non la teologia delle chiese popolari bianche e nere ma il fervore ed entusiasmo di una ritualità liberatoria, partecipata, e cantata.

Noi siamo abituati a pensare al rock and roll come a una rottura epocale, e c’è molta verità in questo(specie nel nostro contesto culturale italiano). Ma questa rottura si innesta anche su una continuità profonda. Dopo tutto, all’inizio della discografia di Elvis Presley stanno una “cover” di un brano rhtyhm and blues (“That’s All Right Mama” di Arthur Big Boy Crudup) e una reinterpretazione di un classico bluegrass (“Blue Moon of Kentucky” di Bill Monroe). E allora, se risaliamo la corrente della storia musicale d’America, dal rock and roll, passando per ryhtm and blues e gospel, e per country e bluegrass, risaliamo senza interruzioni fino all’Africa da una parte e alla Scozia e all’Irlanda dall’altra. Nelle Seeger Sessions di Springsteen, anche per questo, ritroviamo gli spiritual afroamericani, e una grande canzone antimilitarista irlandese, Mrs. McGrath. Anche per questo, senza elucubrazioni e fisiche puristiche, tuttavia le versioni di queste canzoni che ci offre Springsteen a me sembrano anche “filologicamente” giuste:non ha fatto altro che prendere coscienza delle fonti stesse della propria voce. Rock come liberazione, insomma, e rock come storia: una musica che scuote il mondo, e una musica che ha dentro la memoria implicita di migrazioni, guerre, schiavitù, liberazioni.

Certo, non è questa la versione che ce ne ha fornito l’industria musicale, attentissima a disinnescare ogni riferimento che non fosse puramente adolescenziale e sentimentale. C’erano due grandi tabù nella prima generazione del rock and roll: il lavoro e la storia (“Don’t know much about history”, cantava Chuck Berry, non so molto di storia; e Eddie Cochran inveiva contro i lavoretti estivi che gli servivano a comprarsi la benzina). Anche per questo, il rock and roll classico ha subito una specie di eclissi negli anni dei movimenti, prima a favore del folk revival impegnato, poi – dal Dylan elettrico e dai Beatles in poi – a favore di una musica che ha lasciato cadere il “roll” e ha continuato a chiamarsi aggressivamente rock e basta.

Ma, anche per la composizione sociale dei movimenti, questa eclissi ha facilitato un ritorno del rock and roll al mondo blue-collar, del lavoro, delle periferie. Bob Seger, per esempio, è direttamente legato al mondo industriale di Detroit. E Bruce Springsteen irrompe sulla scena con la storia di un ragazzo che lavora in un garage, di un padre che si ammazza entrando e uscendo dalla fabbrica; e trionfa, in The River, con la storia di un operaio edile disoccupato. Per di più, Bruce Springsteen si accorge anche di un’altra cosa: gli adolescenti che hanno imparato più cose da tre minuti di disco che da anni di scuola adesso sono diventati adulti ma non hanno dimenticato da dove vengono. A decenni di distanza, anche il rock and roll ha una storia: la voce di Roy Orbison che canta Only the Lonely (uno dei primissimi dischi che mi sono comprato, correva l’anno 1960) serve a collocare nel tempo un’altra visione di memoria, il momento in un cui un’altra Mary esce sulla veranda per salire in macchina col vestito che ondeggia nel vento.

Negli Stati Uniti, come esistono associazioni accademiche di studi su Herman Melville o Henry James, esiste una rispettabile associazione di studi su Bruce Springsteen radicata anche nelle università. Questo non significa affatto che per prendere sul serio Bruce Springsteen dobbiamo assimilarlo al canone letterario (anche se non mancano libri che lo rileggono alla luce di Whitman ed Emerson; e anche a me è venuto in mente Mark Twain sentendo The River). Bruce Springsteen sa benissimo di essere un’altra cosa; come Elvis Presley, come i Beatles o come Bob Dylan, va conosciuto e ascoltato nei suoi stessi termini, non come un poeta ma come un rocker. Perché nella storia della cultura americana, molto prima e più vigorosamente che da noi, i significati profondi, i problemi cruciali, i conflitti radicali si sono espressi anche nella cultura che i colti disprezzavano, nella cultura orale e nella popular culture. Perciò, se anche noi cerchiamo di imparare qualcosa da tre minuti di disco di Bruce Springsteen, non facciamo altro che il nostro dovere.

Rock come liberazione, e rock fra storia e storie è il tema di una giornata di studio e di musica dedicata a Bruce Springsteen, organizzata dal Circolo Gianni Bosio e dalla Presidenza del Consiglio Provinciale di Roma: “My Hometown. L’America di Bruce Springsteen” (7 ottobre, TeatroColosseo, via Capo d’Africa 7. Roma).

Si comincia la mattina alle 10 con una tavola rotonda su “Bruce Springsteen: il rock come liberazione”, con Adriano Labbucci, Gino Castaldo, Marco Conidi, Antonella D’Amore, Samuele Pardini”; segue alle 16 “Bruce Springsteen fra storia e storie”, con Daniel Cavicchi, Alberto Crespi, Marco Lodoli e Alessandro Portelli. In serata, alle 21, concerto: “Cover Me”, con Marco Conidi, The Backstreets, e le Sesson Voices, un gruppo gospel che debutta per l'occasione.

Ma già da giovedì 4 ottobre si apre (al Circolo Gianni Bosio, via di Sant’Ambrogio 4) la mostra “Bruce Springsteen: il corpo, i luoghi, la memoria”, con fotografie di Giovanni Canitano e Francesco Virlinzi. La mostra sarà aperta (a ingresso libero) fino al 20 ottobre, dal martedì al venerdì, dalle 17 alle 20.

Ma perché se la prendono con la scuola? La violenza non è certo un monopolio americano (nel giorno della strage di Lancaster County, venticinque incappucciati hanno dato fuoco a Roma a un bar di immigrati dopo averne feriti tre a fucilate), e i massacri scolastici sono avvenuti anche in Germania e in Canada. Ma sono stati casi isolati, almeno finora. Solo negli Stati Uniti le stragi nelle scuole costituiscono una striscia di massacri (almeno nove casi negli ultimi dieci anni, con 51 vittime, senza contare gli assassini suicidi), tale che persino Bush si è sentito in dovere di convocare un vertice per cercare di capirci, e di fare, qualcosa.

Ognuno di questi episodi ha storie diverse. Cambiano le vittime (questa volte solo bambine, altre volte anche maschi, e anche insegnanti); cambia il rapporto fra le vittime e gli assassini (compagni di scuola a Columbine, estranei a Lancaster County); cambiano le età, le storie personali, le collocazioni sociali, le pulsioni degli assassini. Due cose restano in comune, però: la scuola, e le armi.

La scuola incarna molti dei tratti del sogno americano: la proiezione verso il futuro, la speranza, la mobilità sociale, la fiducia nel sapere; e incarna anche i suoi fallimenti, l’esclusione, la gerarchia la sconfitta. Soprattutto, specialmente in zone rurali come Lancaster County, la scuola è praticamente l’unica istituzione pubblica, l’unico spazio pubblico rimasto dopo decenni di privatizzazione frenetica (in molte contee rurale la scuola è il maggior datore di lavoro, il comitato scolastico il maggior centro di potere locale). E’ come se, colpendo la scuola, si sparasse addosso a quel che resta di un’idea di socialità e di parità, da cui l’assassino si sente escluso o tradito, su cui cerca di vendicarsi.

Poi, le armi. Un ipocrita luogo comune afferma che portare le armi è inalienabile e non regolabile diritto costituzionale di ciascun cittadino americano. Ora, nella Costituzione uscita dalla guerra d’indipendenza, esposta al rischio di una rivincita coloniale, questo diritto era motivato in modo molto preciso: “Poiché una ben regolata milizia è essenziale alla difesa di uno Stato libero, il diritto dei cittadini a portare le armi non dovrà essere violato.” E allora, che c’entra i fucili d’assalto in mano ai ragazzini e le armi sul retro dei pickup, con una ben regolata milizia, peraltro istituzione pubblica e statuale? Soprattutto, il concetto di regolazione contenuto nella norma costituzionale ci ricorda che anche i diritti inviolabili si esercitano attraverso regole, procedure, limiti e norme (anche il diritto di parola trova un limite nel divieto della diffamazione e della calunnia). Proprio perché condivisi, i diritti non possono non essere regolati.

Nel senso comune giuridico americano è diffusa l’idea che i diritti non derivano dalle relazioni sociali ma sono pertinenza esclusiva e illimitabile di ciascun singolo. Perciò il limite fra diritto violato diritto regolato si confonde, e ogni regola è sentita come una violazione (pensiamo alla retorica reaganiana della “de-regulation”). E allora, ogni limite incontrato, ogni sconfitta privata, ogni ossessione personale si trasforma nel senso di una frustrante ingiustizia subita, per mano della società, dello stato, dei propri vicini. E la frustrazione esplode, e spara, là dove l’odiata società amministra la propria riproduzione e il proprio futuro.

Prendiamo la voce di Francesco De Gregori, i tamburelli incalzanti della pizzica salentina, e versi canonici della Divina Commedia: “nel mezzo del cammin di nostra vita… fatti non foste a viver come bruti…” Mischiamo tutto e facciamoglielo cantare sul palco della Notte della Taranta 2005 e poi nella traccia di apertura del CD appena uscito che raccoglie una selezione di quel concerto (Orchestra Popolare La Notte della Taranta, diretta da Ambrogio Sparagna, La notte della Taranta 2005, registrato dal vivo a Melpignano). Banalmente, potremmo dire che un esempio di quella che oggi si suole chiamare “contaminazione” o addirittura “dissacrazione” (Dante cantato e ballato? Come si permettono?). Ma io direi che è il contrario: è l’evocazione di un tempo forse mai letteralmente esistito ma sempre postulato in cui la divisione del lavoro, il mercato, la Chiesa non avevano ancora eretto barriere rigide fra la cultura “colta”, la cultura “popolare” e quella che oggi chiamiamo “popular culture”. Non un accocchio estemporaneo di cose eterogenee, insomma, ma il richiamo a un profondo sostrato culturale unitario, ben rappresentato dalla poetica condivisa dell’endecasillabo.
La Notte della Taranta è molte cose – un evento di massa, una grossa macchina economica, un’idea di politica culturale, tutte cose su cui si discute e si litiga pure accanitamente e fuori registro, tra divergenze ideologiche da una parte e scontri di potere dall’altra. Ma alla fine è essenzialmente musica e il CD di cui stiamo parlando ci permette di ascoltarla, appunto, in questi termini. Da quando Ambrogio Sparagna ha preso la direzione musicale dell’evento, sono successe alcune cose. In primo luogo, non c’è più l’equivoco per cui la ricerca di rapporti fra musica popolare e altri linguaggi musicali (la cosiddetta “contaminazione”) debba consistere nel “modernizzare” o “elevare” la cultura tradizionale adeguandola a qualcosa d’altro e misurandola su criteri non suoi, ma piuttosto sono gli altri che si devono misurare con la centralità e la piena dignità artistica di questa musica nei suoi stessi termini. Ospiti famosi come Piero Pelù e lo stesso De Gregori imparano con umiltà a cantare il maggio toscano, la pizzica salentina, il repertorio “grico”, senza cercare di assimilarlo a sé; e non si vergognano di stare in secondo piano rispetto a grandi voci popolari come Enza Pagliara, Antonio Castrignanò, Alessia Tordo e altri, che saranno meno famosi ma che qui restano i maestri e i padroni di casa. E infatti gli unici momenti in cui le cose non funzionano sono quelli in cui a qualche ospite viene meno la fiducia nella piena autosufficienza della musica popolare, e pensano di doverla arricchire o abbellire narcisisticamente con l’”interpretazione” e la drammatizzazione, mandando in frantumi quel senso della forma che è il grande principio estetico della musica di tradizione orale. Ma sono solo un paio di brani.
L’altra cosa, più complicata, è il progetto dell’Orchestra Popolare. Ricordo uno scritto di Alan Lomax in cui lui parlava della rarità delle esperienze orchestrali nella musica popolare, e segnalava fra i non molti esempi quelli delle le orchestre tradizionali dei Balcani o delle bluegrass bands americane. Aveva ragione, nella misura in cui la musica popolare, nata in condizione di scarsità, ha imparato a fare il più possibile con mezzi sempre limitati, inventandosi una poetica del limite, della sottrazione, della essenzialità. L’orchestra della Notte della Taranta è diverso dagli esempi di Lomax perché anche se parte dalla tradizione orale si deve collocare in una modalità diversa, quella del grande evento o del circuito dei festival e degli spettacoli con un pubblico di massa, e di una poetica della contemporaneità consumistica in cui invece che sottrarre si pensa che si debba sempre aggiungere. Ora, non è facile fare in quaranta una musica che è nata per essere fatta in tre o quattro, o magari da soli come nel caso delle canzoni narrative. Sparagna aveva già alle spalle l’esperienza riuscita della Bosio Big Band, con la trasformazione dell’organetto da strumento solista in strumento orchestrale; ma qui le cose sono ancora più difficili e ambiziose. Ci sono momenti collettivi travolgenti, pieni d’orchestra di grande presa che danno davvero il senso di una crescita degli strumenti espressivi tradizionali; e ci sono momenti inevitabili in cui il suono è un po’ più omogeneizzato. In qualche intervento orchestrale mi è parso di sentire i Pogues – che comunque è tutt’altro che un insulto, visto che sono stati fra i più grandi interpreti della contemporaneità della musica popolare, ma che rinvia un poco a una koiné di world music generale. Comunque, il progetto di inventare qualcosa di nuovo sviluppando le possibilità implicite nella musica popolare, assumendone i rischi e le responsabilità, mi sembra degno di attenzione e rispetto, magari critico se serve, ma in positivo.
Ho cominciato parlando di sostrato unitario. Nel CD, la musica salentina (tutta, non solo la pizzica!) è una b ase dio partenza per un viaggio verso il resto d’Italia. Sparagna, nelle note che accompagnano il disco, rinvia direttamente a un tema antileghista di unità costituzionale del nostro paese, che è stato drammaticamente centrale al referendum dello scorso giugno. Allora, se il talentino Antonio Castrignanò e il comasco Davide Van de Sfroos si alternano cantando La Cenerina e Porta Romana, ci accorgiamo non solo che l’aria è la stessa e che il carcere è un termento al Sud come al Nord, ma anche che la nostra ricchezza sta nei modi diversissimi fra loro di coniugare questa diversità. Quando alla fine i Sud Sound System entrano in campo proclamando “se conosci le radici che hai puoi capire anche quelle degli altri”, il loro rap sembra davvero una continuazione naturale, davvero la stessa musica, della pizzica che lo precede e lo segue – musica popolare, musica di tradizione orale, poesia parlata del nostro tempo come la pizzica e la canzone epico lirica (e Danto) del loro..