12 ottobre 2006

Prendiamo la voce di Francesco De Gregori, i tamburelli incalzanti della pizzica salentina, e versi canonici della Divina Commedia: “nel mezzo del cammin di nostra vita… fatti non foste a viver come bruti…” Mischiamo tutto e facciamoglielo cantare sul palco della Notte della Taranta 2005 e poi nella traccia di apertura del CD appena uscito che raccoglie una selezione di quel concerto (Orchestra Popolare La Notte della Taranta, diretta da Ambrogio Sparagna, La notte della Taranta 2005, registrato dal vivo a Melpignano). Banalmente, potremmo dire che un esempio di quella che oggi si suole chiamare “contaminazione” o addirittura “dissacrazione” (Dante cantato e ballato? Come si permettono?). Ma io direi che è il contrario: è l’evocazione di un tempo forse mai letteralmente esistito ma sempre postulato in cui la divisione del lavoro, il mercato, la Chiesa non avevano ancora eretto barriere rigide fra la cultura “colta”, la cultura “popolare” e quella che oggi chiamiamo “popular culture”. Non un accocchio estemporaneo di cose eterogenee, insomma, ma il richiamo a un profondo sostrato culturale unitario, ben rappresentato dalla poetica condivisa dell’endecasillabo.
La Notte della Taranta è molte cose – un evento di massa, una grossa macchina economica, un’idea di politica culturale, tutte cose su cui si discute e si litiga pure accanitamente e fuori registro, tra divergenze ideologiche da una parte e scontri di potere dall’altra. Ma alla fine è essenzialmente musica e il CD di cui stiamo parlando ci permette di ascoltarla, appunto, in questi termini. Da quando Ambrogio Sparagna ha preso la direzione musicale dell’evento, sono successe alcune cose. In primo luogo, non c’è più l’equivoco per cui la ricerca di rapporti fra musica popolare e altri linguaggi musicali (la cosiddetta “contaminazione”) debba consistere nel “modernizzare” o “elevare” la cultura tradizionale adeguandola a qualcosa d’altro e misurandola su criteri non suoi, ma piuttosto sono gli altri che si devono misurare con la centralità e la piena dignità artistica di questa musica nei suoi stessi termini. Ospiti famosi come Piero Pelù e lo stesso De Gregori imparano con umiltà a cantare il maggio toscano, la pizzica salentina, il repertorio “grico”, senza cercare di assimilarlo a sé; e non si vergognano di stare in secondo piano rispetto a grandi voci popolari come Enza Pagliara, Antonio Castrignanò, Alessia Tordo e altri, che saranno meno famosi ma che qui restano i maestri e i padroni di casa. E infatti gli unici momenti in cui le cose non funzionano sono quelli in cui a qualche ospite viene meno la fiducia nella piena autosufficienza della musica popolare, e pensano di doverla arricchire o abbellire narcisisticamente con l’”interpretazione” e la drammatizzazione, mandando in frantumi quel senso della forma che è il grande principio estetico della musica di tradizione orale. Ma sono solo un paio di brani.
L’altra cosa, più complicata, è il progetto dell’Orchestra Popolare. Ricordo uno scritto di Alan Lomax in cui lui parlava della rarità delle esperienze orchestrali nella musica popolare, e segnalava fra i non molti esempi quelli delle le orchestre tradizionali dei Balcani o delle bluegrass bands americane. Aveva ragione, nella misura in cui la musica popolare, nata in condizione di scarsità, ha imparato a fare il più possibile con mezzi sempre limitati, inventandosi una poetica del limite, della sottrazione, della essenzialità. L’orchestra della Notte della Taranta è diverso dagli esempi di Lomax perché anche se parte dalla tradizione orale si deve collocare in una modalità diversa, quella del grande evento o del circuito dei festival e degli spettacoli con un pubblico di massa, e di una poetica della contemporaneità consumistica in cui invece che sottrarre si pensa che si debba sempre aggiungere. Ora, non è facile fare in quaranta una musica che è nata per essere fatta in tre o quattro, o magari da soli come nel caso delle canzoni narrative. Sparagna aveva già alle spalle l’esperienza riuscita della Bosio Big Band, con la trasformazione dell’organetto da strumento solista in strumento orchestrale; ma qui le cose sono ancora più difficili e ambiziose. Ci sono momenti collettivi travolgenti, pieni d’orchestra di grande presa che danno davvero il senso di una crescita degli strumenti espressivi tradizionali; e ci sono momenti inevitabili in cui il suono è un po’ più omogeneizzato. In qualche intervento orchestrale mi è parso di sentire i Pogues – che comunque è tutt’altro che un insulto, visto che sono stati fra i più grandi interpreti della contemporaneità della musica popolare, ma che rinvia un poco a una koiné di world music generale. Comunque, il progetto di inventare qualcosa di nuovo sviluppando le possibilità implicite nella musica popolare, assumendone i rischi e le responsabilità, mi sembra degno di attenzione e rispetto, magari critico se serve, ma in positivo.
Ho cominciato parlando di sostrato unitario. Nel CD, la musica salentina (tutta, non solo la pizzica!) è una b ase dio partenza per un viaggio verso il resto d’Italia. Sparagna, nelle note che accompagnano il disco, rinvia direttamente a un tema antileghista di unità costituzionale del nostro paese, che è stato drammaticamente centrale al referendum dello scorso giugno. Allora, se il talentino Antonio Castrignanò e il comasco Davide Van de Sfroos si alternano cantando La Cenerina e Porta Romana, ci accorgiamo non solo che l’aria è la stessa e che il carcere è un termento al Sud come al Nord, ma anche che la nostra ricchezza sta nei modi diversissimi fra loro di coniugare questa diversità. Quando alla fine i Sud Sound System entrano in campo proclamando “se conosci le radici che hai puoi capire anche quelle degli altri”, il loro rap sembra davvero una continuazione naturale, davvero la stessa musica, della pizzica che lo precede e lo segue – musica popolare, musica di tradizione orale, poesia parlata del nostro tempo come la pizzica e la canzone epico lirica (e Danto) del loro..

1 Comments:

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