19 aprile 2007

Blacksburg: Et in Arcadia Ego?

il manifesto, 18.4.2007

Un ragazzo italiano che studia al Virginia Tech di Blacksburg lo definisce due volte “un paradiso”; altri italiani intervistati sull’Unità confermano: un posto piacevole, sicuro, amichevole. Anch’io me lo ricordo così. Un’amica che insegna lì mi scrive: “è un posto piacevole e sereno. Mio marito e io siamo venuti qui dieci anni fa, pensando che a mano a mano che facevamo carriera ce ne saremmo andati, e invece, anche rinunciando a qualche promozione, siamo rimasti. Se scrivi un articolo, devi dire che questa è una comunità coesa, tranquilla. Io sono una donna, ma non mi sono mai sentita insicura anche quando attraversavo il campus di notte dopo avere lavorato fino a tardi.” Un’immagine mi torna in mente quando queste parole si incrociano con la tragedia di ieri. Viene dal nostro Rinascimento: la figura della morte, con la scritta “Et in Arcadia ego,” nell’Arcadia ci sono anch’io. Dove stava la morte, nell’Arcadia di Blacksburg, o come ha fatto a entrarci?
Ieri sera in TV facevano vedere, da Fox News, la foto di un assegno: la National Rifle Association finanziava, a suon di centinaia di migliaia di dollari, il Virginia Tech per istituire corsi in cui insegnare a ragazzi dai 12 ai 14 anni “l’uso sicuro delle armi.” Tillman Cadle, minatore, comunista, leader dei grandi scioperi degli anni ’30 mi raccontava: “Quand’ero piccolo – cioè, intorno al 1915 – chiesi a mio padre di regalarmi un fucile a piumini. Lui mi disse no, potresti far male a qualcuno. Piuttosto ti insegno le regole di sicurezza da usare con un fucile vero. Mi ha portato in campagna, mi ha spiegato come dovevo fare, e quando è stato sicuro che sapevo come usarlo mi ha detto: bene, adesso se ti guadagni i soldi hai il permesso di comprarti un fucile.”
Apparentemente è la stessa cosa: l’uso sicuro delle armi, in una cultura in cui il fucile è simbolo di autonomia e identità. Però c’è differenza fra un padre che trasmette al figlio un sapere in una realtà dove ancora si va a caccia per mangiare, e in una legittimazione di massa e impersonale delle armi, una militarizzazione dei bambini in un campus dove fra l’altro c’è anche un’”Accademia” militare - in un’America in guerra, dove la prima reazione del presidente alla strage è stata di ribadire che nessuno limiterà il diritto “costituzionale” degli americani di portare le armi (bontà sua, il portavoce della Casa Bianca ha aggiunto che “portarle in una scuola e sparare all’impazzata è contro la legge”).
In realtà, come tutti i diritti, anche questo dovrebbe essere soggetto a regole e procedure. Anche Gianni Riotta ricordava ieri in TV che la costituzione parla sì del diritto di portare le armi, ma solo ai fini di una “ben regolata milizia”. Bush ha ribadito invece che portare le armi è un diritto individuale “degli americani”, un segno della loro elezione e unicità; e davvero per molti emarginati e frustrati il possesso di un’arma è quasi l’unico segno di cittadinanza che gli rimane. In un altro messaggio, un amico di laggiù mi ricorda che se i democratici hanno vinto le ultime elezioni è perché si sono accuratamente astenuti dal parlare del porto d’armi.
Però non usiamo questo tema della passione americana per le armi per allontanare da noi questo orrore, per dire che è cosa loro e non ci riguarda. Diceva Cesare Pavese, molti anni fa, che l’America è il grande teatro su cui, su scala più grande, si mette in scena il dramma di tutti, quindi quando parliamo d’America parliamo anche di noi. Dopo tutto, esistono ampie fette di territorio italiano dove procurarsi un’arma da guerra non è più difficile che in Virginia. Soprattutto, se – al di là del caso specifico odierno – al fondo della violenza diffusa di cui questo è solo n clamoroso segnale esiste un senso informa di offesa, di ingiustizia, di risentimento senza oggetto in cerca di capri espiatori, ebbene questo trasuda anche in quell’Italia “incattivita” di cui ha parlato in questi giorni Adriano Sofri. Magari, l’Italia incattivita non spara nelle scuole – ma, recentemente a Roma come tempo fa a Erba, esce di casa e ammazza il vicino pakistano su cui riversa tutte le sue frustrazioni e i suoi risentimenti, o dà fuoco a un campo rom. Il buio oltre la siepe non sta solo intorno all’Arcadio di Blacksburg, ma anche nei nostri solitari condomini.
Le descrizioni di Arcadia violata che arrivano da Blacksburg sembrano suggerire un orrore senza storia, che irrompe non si sa bene da dove. Ma esiste invece uno spessore di esperienza e di memoria che dà forma al rapporto con la tragedia, al modo di gestirla e di reagire. Mi ha fatto molta impressione la storia delle persone che sono rimaste ferite perché si sono gettate dalla finestra per sfuggire al killer. E’ un’immagine che rinvia direttamente alla visione più traumatica e censurata dell’11 settembre, quella delle persone che si gettavano giù dalle due torri dopo l’attentato. Proprio perché le televisioni hanno scelto di non mostrarla, questa immagine è restata nel rimosso dell’America e lì ha lavorato. La strage di Blacksburg, allora, rinvia certo a Columbine e ai suoi precedenti, ma sono sicuro che in quei momenti le persone con volte hanno pensato anche all’11 settembre, matrice generale ormai di tutte le paure di invasione e violazione. Ma in realtà, ieri Blacksburg non è stata tanto Manhattan dell’11 settembre, quanto Baghdad di tutti i giorni: una strage commessa da un attentatore suicida. A Blacksburg è un’irruzione improvvisa, a Baghdad e in tanti altri luoghi del mondo, è un evento ordinario. Perciò, un po’ come l’11 settembre, il dolore ha ricordato a quegli americani che vogliono dargli ascolto, che - come la morte è nella loro Arcadia - anche loro sono nel mondo.
Però ci sono anche altre memorie, memoria locali di lungo periodo e insieme ancora vive e palpitanti. Mi scrive da Blacksburg Stephen Mooney, un altro amico che prima di diventare professore universitario ha lavorato in miniera (cosa insolita ma, negli Stati Uniti, assai meno impensabile che da noi): “Una cosa che vorrei che tu articolassi per i tuoi lettori è il forte senso di coesione e di affetto, insieme con un intenso desiderio di aiutare, che si è manifestato così chiaramente oggi, nonostante la tragedia che ci ha colpito, o di fronte ad essa.” Secondo Mooney, la collettività trova questa forza e questi sentimenti nella sua stessa storia – perché non è la prima volta che la morte di massa colpisce questa parte della virginia: Scrive dunque James Mooney: “Ho sentito qualcosa – una sensazione, un riconoscimento – che mi ha colpito, ed è la somiglianza straordinaria fra l’alba dopo questa sparatoria e l’alba dopo i tanti disastri minerari che sono fin troppo familiari a chi vive in Virginia o in Kentucky” – dai 371 morti del disastro di Monongah nel 1907 ai 78 di Mannington nel 1968, ai 12 di Sago nel gennaio 2006. “Due ora fa, la commessa di un supermercato mi ha abbracciato stretto, rivelando così l’intensità dell’ansia che provava non sapendo se suo figlio e- che aveva una lezione nell’edificio dove era accaduta la strage - era vivo o morto, non ho pensato che alle stesse sensazioni di paura e di orrore che ho visto sulle facce di famiglie e di amici nelle montagne in attesa delle notizie sui vivi e sui morti dopo un’esplosione in miniera.” La memoria dà forma al modo di vivere la tragedia, e la tragedia dà forma alla memoria: “So con assoluta certezza che la memoria di questo giorno terribile risuonerà fra queste colline della Virginia per molto tempo dopo che saranno attenuate le prime emozioni. Ma, a differenza delle dolci e dolorose note delle grandi ballate di questa terra, o della musica degli Stanley Brothers, gli echi del 17 aprile 2007 non porteranno con sé un’affermazione di vita, ma la profonda pena per una morte improvvisa e dolorosa.”

17 aprile 2007

Sprofondo americano

Kurt Vonnegut, che ci ha lasciato soli pochi gior­ni fa, l'aveva detto una volta per tutte: non c'è niente di intelligente da dire do­po una strage. Me ne sono ricor­dato dopo l’11 settembre, e mi torna in mente ancora una volta dopo la strage di Blacksburg in Virginia. Dopo una strage, dice Vonnegut, c'è solo il silenzio del­la morte, e forse qualche suono di uccelli fuori dal linguaggio. E dopo ogni immagine di morte, concludeva: così va.

Ho degli amici e colleghi al Vir­ginia Tech di Blacksburg, e spe­ro di averli ancora. In ufficio ri­sponde la segreteria telefonica; a casa, il centralino dice che le li­nee sono occupate. Immagino che mezzo mondo stia provan­do a chiamare.

A Blacksburg ci sono stato po­che ore, ho l'immagine di uno di quei campus provinciali da idil­lio cinematografico, soleggiati verdi e sereni. Alla ricerca un po' assurda di notizie aggiornate, ho chiamato «Virginia Tech shooting» su Google, e mi sono usciti i dati dei tiri a canestro dell'ulti­ma partita della squadra di casa; ho cercato «Virginia Tech massacre», ed è uscita, la storia di una massacrante batosta inflitta a una squadra rivale. Sparatorie, massacri - le solite metafore sportive della quotidiana norma­lità, improvvisamente riportate al loro senso materiale, di solito dimenticato ma sempre latente. C'è sempre una tenebra annida­ta sotto il sole di questa America, una foresta ai margini del villaggio, un Injun Joe nella caverna sotto il villaggio di Tom Sawyer. L'idillio del campus è un mondo separato, come tanta parte del­l'universo accademico america­no, ghetto e torre d'avorio. Dice­va un collega tanti anni fa: un ghetto nero disperato circonda la modernissima e iperliberista università di Chicago; e, aggiun­gerei, c'è una tormentata Appalachia attorno al sole e al verde del campus di Blacksburg. Sotto la pace ordinaria c'è sempre qual­cosa in attesa di esplodere.

Lynndie England, la protago­nista di Abu Ghraib, viene dal West Virginia, a un passo da lì. Viene da pensare che tanti bravi ragazzi americani di paese, spe­diti in Iraq, fanno laggiù col per­messo del governo quello che rischierebbero di fare a casa, e che altri ragazzi come loro a ca­sa fanno davvero. La Virginia nord-occidentale è una paese bellissimo di montagne ruvide e ripide, di valli strette, di boschi distesi, e - come tanta parte de­gli Usa - di violenza accumulata, di gente armata e risentita, che non si fa mettere i piedi sul collo da nessuno e che ogni tanto va fuori di testa, che si sente emargi­nata e spodestata ma non sa per­ché, in un'America che non capi­sce più e che non li capisce più, e scarica i risentimenti dove capi­ta, punendo torti immaginari perché non riesce a riconoscere e articolare quelli veri. Anche i paranoici hanno nemici veri; ma non sempre sanno riconoscerli.

Queste comunque sono paro­le. Diceva Bob Dylan, a proposi­to di un'altra strage: ci sono 7 persone morte in una fattoria del Sud Dakota; da qualche par­te, lontano, altre 7 persone na­scono. Ci sono 32 persone mor­te, a Blacksburg. Così va.

16 aprile 2007

Leggi elettorali e democrazia rappresnetativa

L'ingegneria istituzionale nel letto di Procuste
(il manifesto, 15.4.2007)

In un intervento di qualche giorno fa, Stefano Rodotà ha sottolineato l'assur­dità di una discussione sui meccani­smi istituzionali, a partire dalla legge elettorale, dominata dall'illusione di risolve­re le questioni di fondo, i problemi concreti del paese, a colpi di ingegneria istituziona­le. Vorrei fare qualche altro passo sulla stra­da da lui indicata, soprattutto quando fa ri­ferimento alla questione cruciale della rap­presentanza. Nell'articolo 1 della nostra Costituzione si legge che «La sovranità appar­tiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». La cosa più importante in questa formulazione non è tanto l'appartenenza della sovranità - che infatti nell'ideologia presidenzial-governabilista, può e deve essere affidata a altri, che diventano, loro, «sovrani» nell'accezione berlusconiana - ma il suo esercizio. Ciò che fa della nostra una delle costituzioni più in­telligenti, democratiche e moderne - e quin­di più fastidiose a chi ama comandare sen­za lacci e laccioli - è l'idea di una cittadinan­za attiva e partecipe, che non limita l'eserci­zio della sua sovranità a un voto periodico ma che attraverso questo voto si rappresen­ta e si esprime.
Ora, in tutta la discussione sulla legge elet­torale, almeno da quanto è dato da leggere sui giornali, il tema della rappresentanza non è mai all'ordine del giorno. Il problema è se la legge debba o no favorire certe coali­zioni, dare spazio ai piccoli o ai grandi parti­ti, premiare o meno, e come, maggioranze nazionali o regionali, e così via. In nessun momento ci si pone il problema di quale sia il processo elettorale più adatto a garantire la pienezza dell'espressione della sovrana volontà del popolo e della sua rappresenta­zione istituzionale, che è poi la ragione per la quale esistono le elezioni.
Sappiamo bene che il fatto che si tengano elezioni non garantisce di per sé la qualità democratica di un sistema politico, ma è co­munque un requisito necessario: la demo­crazia comincia lì. Credo sia stato un errore dei costituenti non fare del sistema elettora­le almeno una legge costituzionale, non mo­dificabile ad libitum da maggioranze pas­seggere - ma certo non immaginavano che ci saremmo trovati nelle condizioni di oggi. Perché mettere mano al processo elettora­le, al meccanismo da cui parte l'esercizio della sovranità, significa mettere mano al­l'essenza della democrazia. Cambiare il si­stema elettorale per interessi di parte (legge Calderoli) o di ceto politico (come negli ac­cordi bipartitici che si profilano all'orizzon­te) non sarà propriamente un colpo di stato ma sicuramente è una ferita grave alla de­mocrazia. Per capirsi: da cittadino, mi accor­go che le proposte in gioco non hanno il fi­ne di aiutarmi a esprimere la mia quota di sovrana volontà votando in base alle mie scelte e orientamenti, ma piuttosto a impor­mi di votare in un certo modo, a limitarmi le scelte, a dare più peso a certe scelte inve­ce che ad altre.

Tutto questo, in nome di alcuni feticci ide­ologici: governabilità, bipolarismo, unino­minale... Su bipartitismo e uninominale vorrei ripetere una cosa che ci siamo detti molte volte: sono all'origine il prodotto di una democrazia settecentesca parziale e eli­taria, in cui votava un solo ceto, una demo­crazia incipiente. Ma in Italia sono stati im­posti su una società matura, complessa, e abituata al suffragio universale: anziché un'apertura, come nelle democrazie anglo­sassoni del settecento, sono un letto di Procuste su cui costringere il pluralismo della società. Sulla governabilità, un'altra osserva­zione: non solo le crisi di governo e i cambi di maggioranza non sono affatto scompar­se col bipolarismo (siamo già al Prodi 2), ma soprattutto va notato che da quando vi­ge il bipolarismo nessuna maggioranza è stata rieletta, nessun governo ha rivinto le elezioni (e già si dà per scontato che se si vo­tasse neanche questo governo - per la cui rielezione vorrei adoperarmi - sarebbe rie­letto). Chiaro che la possibilità dell'alternan­za è una garanzia democratica, ma la sua si­stematicità è segno anche che, grazie alla governabilità garantita, i governanti si sono isolati nel loro mondo separato giocandosi sistematicamente la credibilità e il consen­so dei cittadini. Che, in assenza di altri stru­menti, per disfarsi del governo in carica si trovano a rieleggere la maggioranza di cui si erano disfatti nella votazione precedente, e così via. Bel risultato di ingegneria istituzio­nale democratica.

10 aprile 2007

Repliche delle Lezioni di storia

La lezione sulle Fosse Ardeatine viene replicata su Rai Sat mercoledì alle ore 17.30 e domenica alle 14.30