22 gennaio 2008

Obama o Clinton? non mi appassiono

il manifesto 20.1.2008

Non mi riesco ad appassionare a queste benedette primarie americane. Eppure gli ingredienti ci sarebbero tutti: pensate, un afromericano e una donna in testa alle primarie democratiche, con eccellenti possibilità di diventare presidente! Sicuramente è un fatto enorme dal punto di vista simbolico: l’affermazione formale del fatto che “razza” e genere non escludono più a priori dalla pienezza dei diritti politici; e persino la nuova disponibilità almeno di una parte significativa del paese ad accettare di prendere ordini da un nero o da una donna (in un paese dove persino i sindacati operai hanno resistito a lungo all’idea che un nero potesse diventare caporeparto e dirigere operai bianchi). C’è da chiedersi: a parte la campagna di Cuore per Tina Anselmi presidente tanti anni fa, quando si è mai posta e quando si porrà in Italia l’ipotesi di una presidente della repubblica o di una presidente del consiglio? Ancora una volta, se non altro sul piano simbolico, l’America rivela risorse impreviste, indica strade nuove.
Dico sul piano simbolico in più di un senso. In primo luogo, in positivo, perché il mutamento profondo di cui hanno bisogno le democrazie occidentali, e quella americana forse più di tutte, passa in primo luogo attraverso l’immaginazione culturale: un paese che ha giocato un’elezione sul matrimonio gay (e un’altra, quella di Bush padre, sull’incubo del nero come criminale) ha bisogno di tirarsi fuori da questi bassifondi della mente se vuole davvero recuperare credibilità sia verso se stessa, sia verso il resto del mondo.
In secondo luogo, però, dico simbolico nella misura in cui l’eventuale elezione di Clinton od Obama non è (come era al tempo delle campagne di Jesse Jackson) l’espressione di un movimento montante dei neri o delle donne che collettivamente rivendicano i propri diritti. Più che dalla società, questo mutamento proviene dall’interno del sistema politico. In un certo senso, allora, l’altra faccia della medaglia dell’immaginazione simbolica che rende possibili le candidature di Obama e Clinton è la sensazione che attraverso di loro un sistema politico e una classe dirigente in crisi cerchi di darsi una nuova legittimazione, cambiare molto perché molto resti com’è.
Da fonti anche insospettabili, per esempio, mi sento dire che se un nero (o una donna) può diventare presidente, allora non ha più senso dire che i neri o le donne sono discriminati, non ha più senso mantenere programmi di “affermative action.” Con la loro elezione, un’America soddisfatta di sé potrebbe dirsi che razzismo e sessismo sono problemi superati, e lasciare la maggioranza dei neri e delle donne nelle condizioni di prima senza neanche un appiglio simbolico (controconsiderazione: come che sia, da tutti i candidati democratici, anche quelli maschi e bianchi, è comunque da aspettarsi una politica meno sessista e meno razzista di quella dell’amministrazione attuale).
Inoltre: la sola cosa che accende un po’ l’immaginazione su Osama e Clinton è la loro identità, e non a caso le rappresentazioni mediatiche della campagna insistono proprio su questo - carattere e identità, le rughe, le lacrime, la retorica – lasciando relativamente nebulose le idee e i programmi concreti. Il fatto è che tutto sommato gli aspetti interessanti e quelli problematici di entrambi sembrano bilanciarsi, e le differenze di idee e proposte – sulla guerra, l’economia, la salute, i diritti - sembrano abbastanza fluide, sfumate e mutevoli da non costituire grande motivo di speranza o di timore verso l’uno o l’altra. Infatti, si parla già di un ticket che li veda insieme, per la presidenza e la vicepresidenza.
Quello che resta significativo, piuttosto, è il fatto che, nonostante tutte le pesanti ambiguità e arretratezze di entrambi, nonostante la loro sostanziale appartenenza al pensiero unico del liberismo globale, le candidature democratiche in campo marcano comunque una differenza non trascurabile da tutto quello che Bush ha rappresentato finora. Certo, uno vorrebbe di più (specie sulla guerra, sul Medio Oriente, sui diritti dei lavoratori), ma questo passa il convento: molto meno del desiderabile e forse del sufficiente, ma qualcosa più di zero. Anche qui, le differenze passano in primo luogo sul piano che sto chiamando simbolico: con tutti i loro sforzi, per esempio, né Obama né Clinton riescono a non essere riconoscibilmente laici, almeno per come è possibile esserlo negli Stati Uniti contemporanei. Nessuno dei due sta in missione per conto di Dio, e non è cosa da poco.
In sintesi: che le primarie democratiche le vinca Obama o Clinton per ora mi sembra abbastanza indifferente. Le cose cominceranno a farsi più appassionanti nel momento in cui la contesa sarà fra democratici e repubblicani. Non è affatto vero, come sembrano credere la maggior parte dei media, che la vittoria democratica sia scontata, e che quindi l’elezione vera siano queste primarie. Berlusconi ci ha insegnato che le destre al potere hanno sette vite e sono capaci di ritorni improvvisi – fra riserve inaspettate di consenso e l’ormai comprovata capacità repubblicana di falsificare le elezioni. Allora sì che ci sarà da preoccuparsi, da sperare, e da coinvolgersi.