27 marzo 2008

Bella Ciao e la pubblicità della Coca Cola

A metà anni ’60, i braccianti chicanos in sciopero in California cantavano, oltre ai corridos, una versione in spagnolo di “Bella Ciao.” Un paio d’ani fa, un gruppo di ragazzi turchi incontrati per strada a Roma ce ne cantò un’altra versione, naturalmente in turco. La sentii, negli anni ’80, in non so più che raduno di gente di sinistra in Inghilterra. Insomma: se c’è una canzone globale e alternativa insieme, è “Bella Ciao.” E, come ogni cosa davvero globale, è normale che finisca nel tritatutto globale della pubblicità. Abbiamo fatto pubblicità con Gandhi e con Cristo, non c’è da sorprendersi che una bevanda messicana prodotta dalla Coca Cola si promuova con questo allegro motivetto internazionale.
Infatti, se uno è abbastanza ignorante da non sapere che storia c’è dentro questa canzone e abbastanza sfacciato da fregarsene, “Bella Ciao” è un jingle perfetto: con alto tasso di riconoscibilità, facile da ricordare e ricantarsi distrattamente, carico di ottimismo amicale con quel “bella” e quel “ciao” così in armonia con la convivialità giovanilistica della Coca Cola. Persino ludico – ci insegnava Roberto Leydi che quel ritornello, con l’allegro battito delle mani, veniva da un gioco di bambini da qualche parte fra il Veneto e l’Istria.
E poi, a pensarci bene, ai pubblicitari non dev’essere neanche dispiaciuta quella vaga aura di “libertà” che forse ancora associano alla canzone. In fin dei conti, jingle e spot oggi parlano continuamente di libertà; ma la libertà che ci propongono oggi è una libertà limitata di consumatori, una bibita invece di un’altra, un’automobile, un dentifricio, invece di un altro che gli somiglia. Un prodotto politico invece di un altro, la globale libertà di scelta di noi popolo delle libertà. Se questo è quello che resta della libertà per cui è morto (e vissuto) quel partigiano, è normale che il funerale glielo canti la Coca Cola in Messico.