20 settembre 2008

"Sporco negro"? "Generica antipatia"

il manifesto, 19.9.08

Hanno proprio ragione i magistrati e i politici milanesi secondo cui massacrare una persona chiamandolo “negro di merda” non è un atto di razzismo. Infatti hanno dalla loro la più autorevole giurisprudenza del nostro paese: un paio di anni or sono, la Corte di Cassazione sentenziò, infatti, che (come riferiva allora la Repubblica) “l’espressione ‘sporco negro’ – pronunciata da un italiano mentre aggredisce persone di colore alle quali provoca serie lesioni – non denota, di per sé, l’intento discriminatorio e razzista di chi la pronuncia perché potrebbe anche essere una manifestazione di ‘generica antipatia, insofferenza o rifiuto’ per chi appartiene a una razza diversa.” Immagino che la suddetta preclara giurisprudenza possa applicarsi anche a espressioni affini come “negro di merda”. Quindi, “nessuna aggravante”.
In effetti, i due assassini di Milano hanno fatto sapere che avrebbero fatto lo stesso anche se il loro bersaglio fosse stato bianco – e questo, secondo loro, dovrebbe rassicurarci (mi viene in mente la signora con bambina che allo stadio faceva “buuu” ai giocatori di colore e, alle mie rimostranze, rispose che lo faceva pure ai bianchi. Come se una schifezza ne scusasse un’altra). Ma loro almeno lo fanno per proteggersi - e comunque, per fortuna, manca la conferma empirica. Quelli che davvero non hanno vergogna sono quelli che nelle istituzioni e nei media gli tengono bordone.
Io infatti ero convinto che “generica antipatia, insofferenza o rifiuto per chi appartiene a una razza diversa” fosse appunto una perfetta definizione del razzismo: un atteggiamento mentale e culturale, che può o meno produrre altri effetti criminosi ma è già un orrore in sé. Per aver definito “negro di merda” un giocatore avversario, il commissario tecnico della nazionale spagnola si beccò una meritata bufera di accuse di razzismo. Si vede che certe espressioni smettono di essere razziste quando alle parole si accompagnano le mazzate.
La strategia discorsiva è la stessa seguita dal tribunale californiano nel caso Rodney King (quello che scatenò la rivolta di Los Angeles): suddividere un evento unitario in frammenti distinti in modo da separarne causa ed effetto e renderlo incomprensibile. In questo caso, le botte e le parole non fanno più parte di un medesimo processo, ma sono due cose separate e senza relazione fra loro: non danno le botte perché la vittima è comunque ai loro occhi uno “sporco negro”, ma da una parte hanno verso di lui una “generica antipatia” e dall’altra lo ammazzano, però l’una cosa con l’altra non c’entra.
Se vogliamo, su tragica piccola scala, questa è la logica che presiede oggi la separazione fra le leggi razziali e il fascismo rivendicata dal sindaco di Roma e dai suoi seguaci: il regime cacciava i bambini dalle scuole e aiutava i nazisti a sterminarli, ma non perché era fascista e quindi razzista, ma per una mera aberrazione. Staccato dalle sue conseguenze materiali, insomma, il razzismo diventa una cosa nebulosa e astratta, che uno può negare e persino condannare, continuando a praticarlo.
Questa mi pare anche la debolezza dell’”antifascismo” dichiarato da Gianfranco Fini: se davvero ci riconosciamo nei valori della Resistenza e della Costituzione, allora sarà il caso di metterli in pratica, e di smettere di discriminare e schedare i rom, cacciare gli immigrati, considerare aggravante la clandestinità, praticare politiche che colpiscono sistematicamente i più deboli e più marginali. Cioè: ricomponiamo parole e fatti, ricomponiamo i proclami di antirazzismo con pratiche antirazziste, egualitarie, civili – il contrario di quelle per le quali la commissione europea ha appena ribadito la critica e la condanna al nostro governo (contrariamente a quello che avevano proclamato Maroni e i telegiornali). Invece facciamo esattamente il contrario: separiamo le parole dai fatti che ne conseguono, e ci serviamo di questa scissione per attenuare la gravità di un assassinio, o per prendersi patenti di democraticità senza bisogno di fare una politica democratica.
La parola chiave del razzismo nostrano è “ma”: “io non sono razzista ma…” Io non sono razzista, ma quelli i biscotti li avevano presi. Io non sono razzista, ma i rom rubano. Il documento degli “scienziati” fascisti sulla razza, almeno, proclamava che era l’ora che gli italiani si proclamassero “francamente” razzisti. Adesso, noi italiani brava gente ci vergogniamo del nostro razzismo al punto da negarlo in faccia all’evidenza – e proprio questa negazione ci permette di continuare a praticarlo in forme sempre più violente.

15 settembre 2008

I Soprano e gli altri: Acoma 36

il manifesto 16.9.08

“L’idea di continuità in televisione”, ha detto David Lynch, “è formidabile… La televisione è un teleobiettivo, mentre il cinema è un grandangolo. Al cinema si può mettere in scena una sinfonia, mentre in televisione ci si deve limitare a un cigolio. Unico vantaggio: il cigolio può essere continuo”. Parte da questa citazione il saggio di Stefania Carini che apre, come chiave di lettura, lo speciale numero 36 di Acoma , la rivista internazionale di studi nordamericani, dedicato a I Soprano e gli altri. I serial televisivi americani in Italia, che va in libreria in questi giorni.
La frase di Lynch mi fa venire in mente un’altra descrizione delle differenze fra televisione e cinema, proposta anni fa da Beniamino Placido. Andare al cinema, diceva, è come andare a messa: esci di casa, ti rechi in un posto dedicato a quella funzione, nel tempo della durata non fai altro che seguire la cerimonia o il racconto, collocata più in alto, in uno spazio più illuminato del tuo, abitato da personaggi più grandi di te. Guardare la televisione invece è come dire il rosario: stai a casa tua, nella tua sedia o poltrona preferita, con la luce accesa, a guardare personaggi più piccoli di te e comunque chiusi in una scatola più piccola del tuo salotto … e ogni tanto ti interrompi per andare in cucina a girare il minestrone, o perché suona il telefono, o bussano alla porta… O il serial stesso si interrompe per lasciar spazio a un’altra narrazione seriale, ripetuta, altrettanto mitopoietica – la pubblicità.
La differenza, insomma, starebbe nella relazione che deriva da una diversa qualità del tempo e dello spazio: il tempo (e il tempio) speciale e della cerimonia, e il tempo ordinario e domestico quella quotidianità. La complessa forma del serial che questi saggi esplorano in profondità sarebbe allora connessa essenzialmente con una qualità dell’ascolto, sulla polarità fra ascolto continuo e dedicato e ascolto frammentato e disperso. E - come sanno bene quegli specialisti della serialità rivolta a un pubblico disattento che sono gli insegnanti - la ripetizione, l’iterazione cumulativa, diventa uno strumento essenziale per impadronirti dell’interesse e dell’immaginazione anche di chi ti ascolta con un orecchio solo o non vorrebbe ascoltarti affatto. La storia deve andare avanti osmoticamente, richiamandosi continuamente a se stessa. Di qui anche quelle analogie con l’epica orale che Cinzia Scarpino riprende nella sua introduzione (con la differenza che nell’oralità è il pubblico empirico che interviene direttamente sulla, spesso nella, performance; mentre il serial televisivo prende forma in relazione a un’audience ideale, che spesso contribuisce creare).
Come sappiamo, esiste in Italia una lunga storia di approfonditi studi critici della serialità, da Alberto Abruzzese a Paola Colaiacomo e altri ancora. I Soprano e gli altri aggiorna questa tradizione all’età della “Quality TV” (definita – per quel che è possibile – nel saggio di Stefania Carini), in cui il serial si fa sempre più complesso, autoconsapevole e ambizioso, fino a vette come i Soprano da un versante e I Simpson dall’altro (non a caso il volume si chiude con due saggi che li analizzano, rispettivamente di Cinzia Scarpino e Manuela Marziali). Ma soprattutto, il volume di Acoma guarda i serial americani e la loro ricezione in un tempo storico cambiato: quello dell’11 settembre.
In questo senso, è importante l’osservazione, che incontriamo nei saggi di Hamilton Carroll su 24 di Donatella Izzo su CSI, secondo cui l’ideologia emergenzialista, il sopravvento dell’emergenza sulla legalità, della sicurezza sui diritti erano già prefigurati in alcune di queste serie prima dell’11 settembre. Come nota ironicamente Izzo, in CSI un paese che non assicura i diritti sanitari ai cittadini vivi è disposto a prendersi cura di loro con tutti e mezzi e senza badare a spese, quando gli si presentano sotto forma di cadaveri – cittadini inerti, penetrabili, governabili, manipolabili dagli “esperti”. E’ come se gli Stati Uniti fossero arrivati a quella data già preparati alle risposte che ne ha dato l’establishment politico, da discorsi mediatici ripetuti che hanno dato forma alla sua immaginazione. Così, con agghiacciante leggerezza, Irene Allison accosta l’Edipo bellico di George W. Bush a quello di tutto un ambito di serial ospedalieri, compreso un cruciale episodio di Lost: si tratta sempre di guadagnarsi la stima del padre, di finire il lavoro del padre, di affermarsi come padre.
L’altro tema del volume, infatti, è il modo in cui i serial illuminano i cambiamenti che l’11 settembre ha apportato nella percezione dei ruoli di genere: nei saggi di Valeria Gennero, Anna Belladelli, Leonardo Buonomo, si mostra come i serial facciano i conti (assecondandola o criticandola) con un’America che risponde alla ferita dell’11 settembre ricostruendo una mistica della virilità e della protettiva saggezza paterna – un’America Marte contrapposta a un’Europa Venere anche nell’ultima puntata di Sex and the City.
Ovviamente, spesso ci fanno i conti in modo critico o almeno ironico. I Soprano incrinano quell’icona maschile che è da sempre il gangster; e Stefano Asperti mostra come ER rielabori la metafora militare dell’”emergenza” (o nella versione italiana, della “prima linea”), in termini di esplicita critica alla guerra irachena, alle sue motivazioni, ai suoi costi, alle sue menzogne. Come tutta la popular culture, insomma, i serial sono in primo luogo un terreno di conflitti, ideologici e morali: la condivisa ricerca formale ne accentua la contraddizione, e ne approfondisce, con la qualità delle storie e delle immagini, la portata per il nostro tempo.

Dio, patria e famiglia: Tremonti e il ritorno dell'800

il manifesto 29.8.2008


Dicevano gli antichi che quelli che gli dei vogliono far perdere prima li fanno impazzire. Avevano torto: qui più impazziscono e più continuano a vincere. Forse perché insieme con loro stiamo diventando tutti matti e siamo saliti come un sol uomo su una macchina del tempo che scivola a rotta di collo verso un passato sempre più remoto. Nell’universo del di tutto di più, non basta più il già demodé revisionismo anti-antifascista: “le ideologie del novecento sono finite”, ha proclamato Giulio Tremonti al meeting di Comunione e Liberazione, e con esse non solo il comunismo e il fascismo, ma “anche il liberismo. Bisogna tornare ai grandi valori dell'Ottocento” - o anche più indietro, al grido sanfedista di “Dio patria e famiglia”.
In un certo senso, già c’eravamo avviati. Basta pensare alla straordinaria idea di abolire i contratti collettivi e tornare ai bei tempi del contratto individuale (certo, in omaggio all’unica ideologia novecentesca rimasta, lo chiamiamo in americano: “tailor-made”), nella settecentesca finzione di uguaglianza contrattuale fra lavoratore e impresa. O alle lambiccate leggi elettorali che a mano a mano erodono quell’obbrobrio novecentesco chiamato suffragio universale con la folle idea che una testa valesse un voto. O alla restaurazione dello ius speciale dell’impunità per il sovrano. O al ritorno all’educazione gestita dalla Chiesa e articolata per censo, i poveri all’avviamento e i benestanti al liceo privato. O all’idea che esistano razze inferiori da rinchiudere ed emarginare. Fino adesso facevamo finta che tutto questo si chiamasse modernità, governabilità, mercato – liberismo, appunto. Grazie a Tremonti e all’aria che tira, adesso possiamo chiamare le cose col loro nome: restaurazione e utopia reazionaria. Anche questa è libertà.
Però Tremonti deve stare attento. Certo, anche l’800 aveva le sue magagne – schiavitù, colonialismo… - ma non credo che lo disturberebbero più di tanto. Piuttosto, nel suo precipitoso viaggio nel tempo rischierebbe di imbattersi in ostacoli di altro genere – magari, di andare a sbattere su una cosa ottocentesca chiamata Comune di Parigi, su un brigante lucano di nome Ninco Nanco, su un dimenticato filosofo ottocentesco chiamato Carlo Marx, e persino su un capellone anticlericale in camicia rossa di nome Giuseppe Garibaldi.
Su questo, per fortuna, ci stiamo già lavorando. Non bastasse la Lega che ce l’ha con Garibaldi per avere contribuito a unificare l’Italia, adesso ci si mettono anche i nostalgici nazionalisti siciliani. Così, il sindaco di Capo d’Orlando ha preso letteralmente in mano il piccone e ha demolito la targa della piazza del paese intitolata a Giuseppe Garibaldi. Intanto un altro sindaco della stesa sventurata terra, a Comiso, ha deciso che intitolare l’aeroporto al comunista Pio Latorre, ucciso dalla mafia (a proposito, stiamo tranquilli: nell’800 la mafia c’era già) è un’offesa all’identità patriottica, e restaura il nome assegnatogli ai bei tempi fascisti del 1937, quello di un generale d’aviazione morto in Etiopia – non senza, speriamo, avere debitamente irrorato quel primitivo paese africano con civilizzatori gas e bombe a frammentazione.
In fondo, il sindaco di Capo d’Orlando è al passo coi tempi: la cosa ottocentesca su cui stiamo tutti lavorando alacremente è la restaurazione dell’Italia pre-1860, pluralità di staterelli di dimensione regionale e comunale, con al centro il potere temporale dei papi tanto rimpianto da Bagnasco (io comunque mi iscrivo fin d’ora al Granducato di Toscana). Perché dire ‘800 è già dire troppo: il diciannovesimo secolo che ha in mente Tremonti è quello degli inizi, della Santa Alleanza, del trattato di Vienna, di Talleyrand e di Metternich, di quelle belle guerre fra piccole grandi e medie potenze di cui infatti già assistiamo al revival. Ma una volta preso l’abbrivio, perché fermarsi ? Saltiamo a pié pari i blasfemi lumi del ‘700, soffermiamoci un momento sui bei tempi della controriforma seicentesca, e visto che ci siamo arriviamo felicemente a quel “Medioevo prossimo venturo” di cui da tanto si favoleggia. E che tanto piace alla Lega e Alberto di Giussano.
Con un problema, però: dopo tutto, nel Medioevo c’erano Francesco (che non cacciava i mendicanti da Assisi), Dante, Petrarca, Boccaccio, Giotto, Simone Martini… Oggi temo che non ci bastino Tremonti, Sgarbi (altro sindaco siciliano, a proposito) o Marcello Veneziani. C’è rischio che a forza di andare nel passato ci si accorga di quanto fa schifo il presente. E se siamo in tanti ad accorgercene, chissà che non succeda – come dicevano agli antichi –un Quarantotto…