18 novembre 2008

"Oltre Babilonia" di Igiaba Scego

dal manifesto, 2.10.08

In un libro di qualche anno fa, Franco Moretti aveva introdotto la categoria di “opere mondo”: libri abbondanti, dalla struttura complessa e magari resa anche un po’ incerta proprio dall’ambizione di mettere il mondo intero dentro le pagine di un libro. Ci ho pensato (fatte le debite proporzioni) leggendo Oltre Babilonia di Igiaba Scego (donzelli, 2008, 454 pp., E. 17,50). E’ un vasto romanzo intensamente politico e intensamente carnale, che, facendo perno su Roma e passando per Tunisi, si affonda dentro la Somalia colonizzata, liberata, distrutta, e dentro l’Argentina desaparecida ed esiliata, intrecciando storie - quattro madri e figlie e il controcanto di un padre introvabile – in una forma geometrica e variopinta come quelle stoffe africane che il padre, appunto, disegna e dipinge e regala nei tempi di un incessante errare.
La frase Oltre Babilonia, spiega una delle voci narranti, si ispira a Bob Marley, all’immagine biblica di un estremo del degrado e della sofferenza, e dalla speranza di riuscire ad attraversarlo e uscirne vive – come in fondo riescono a fare le sue protagoniste. Ma in un romanzo del genere non può non evocare anche l’immagine della Babele multilingue all’origine di tutte le diaspore e di tutti gli esili. Dopo tutto, una metà delle storie si incrociano a Tunisi dentro una scuola di arabo (anzi, di arabi: l’arabo classico e l’arabo tunisino) frequentata da gente di tutti i continenti. Lo spagnolo ricordato e rimpianto, il somalo perduto, ritrovato, perduto di nuovo (e l’inglese, il francese, il portoghese citati dai libri, dai film e dalle canzoni) si impastano dentro un italiano ibridato, sporcato in mille maniere, intriso di tutti i sapori del nostro tempo. I racconti della “Reaparicida” argentina e del “padre” somalo assente sono fatti davanti al registratore, per passare memorie e sentimenti a figli lontani nelle emozioni, o nello spazio e nel tempo, e hanno i tempi, le digressioni, gli andirivieni dell’oralità – ma non in omaggio a un esotismo africano o latinoamericano quanto come forma di autoanalisi, di dialogo, di esplorazione attraverso la parola, attraverso un dialogo con se stessi e un dialogo con gli altri che può cominciare solo in assenza.
Ma in tutto questo plurilinguismo Igiaba Scego, afroitaliana di seconda generazione, viene fuori come una voce intrinsecamente romana: più il libro si spande in un’inclusività globale, più si fa intenso il suo sapore metropolitano locale. Le voci narranti e dialoganti della “Nus-Nus”, della “Negropolitana”, hanno il ritmo, il lessico e il gusto della lingua di strada che parlano le generazioni contemporanee oggi a Roma, con gli echi musicali e televisivi e con il sarcasmo, l’ironia, i barocchismi, l’autodenigrazione difensiva di cui da sempre è fatta la lingua di questa città.
Oltre Babilonia, insomma, prova a mettere il mondo intero (o almeno tre continenti) dentro un solo libro, ma anche dentro una sola città, una città-mondo. C’è una canzone recente di Steve Earle, su New York, che dice: “vivo in una città di immigranti, non ho bisogno di viaggiare”. La Roma di questo romanzo va oltre. È una città di immigranti (e di esuli), e questi immigranti viaggiano incessantemente, e per capirne di più dobbiamo viaggiare con loro.
Su questa città di immigranti convergono due delle grandi ferite, reali e simboliche, della storia contemporanea, che in un certo senso riassumono in sé tutto il male del tempo: la Somalia, resa nella sua vivida quotidianità attraverso il colonialismo italiano, l’euforia breve dell’indipendenza, la beffa dell’”amministrazione fiduciaria” italiana, il neocolonialismo, la dittatura “comunista” e poi solo personale di Siad Barre coi suoi amici italiani, le guerre civili che della bella Mogadiscio fanno un campo di battaglia e un luogo di morte; e la Buenos Aires fascista dei generali, dell’ESMA, dei torturati, degli scomparsi, degli esiliati.
Ma queste ferite universali sono anche metafora, e causa, e parte, di ferite personali. Dopo tutto, sia la guerra sia la tortura si infliggono in primo luogo sui corpi; e sul corpo, soprattutto come violenza sessuale, si infliggono le ferite che separano i protagonisti di questo romanzo e ne impongono la forma di monologhi e di storie separate che – un po’ come in Amatissima di Toni Morrison – solo alla fine si schiudono nella speranza di potersi mettere una vicina all’altra (non è questa la sola eco morrisoniana: penso anche, in questo romanzo di donne, alla figura della paternità come assenza, ancora come in Amatissima; la scomparsa dei colori dopo la violenza subita dalla “Nus-Nus”, e la perdita del senso e della voglia di vivere della Flaca torturata in Argentina). I due livelli, quello della grande storia e quello delle storie personali, sono come saldati dall’episodio centrale del doppio stupro, su una donna e su un uomo, compiuto dai colonialisti in Somalia. Che questi soldati fossero italiani, poi, apre su tutta un’altra storia nostra che non abbiamo voluto raccontare e che libri come questo, o come Regina di fiori e di perle di Gabriella Ghermandi, con gentilezza implacabile, ci impongono di ascoltare.

05 novembre 2008

Barack Obama e la mossa del cavallo

"il manifesto" - 6.11.08

Oggi salutiamo in Barak Obama, con entusiasmo e commozione, il primo presidente «nero» degli Stati uniti. Ma «nero» in che senso? Dopo tutto, ha un padre nero e una madre bianca, si è recato in piena campagna elettorale al capezzale di una nonna bianca, il colore della sua pelle non è tanto più scuro di quello di tanti italiani. E’ tanto nero quanto bianco, ma lo chiamiamo nero perché quella parte di lui è resa equivalente al tutto dalle conseguenze tutt’altro che svanite di una lunga storia
Nel 1872 il grande leader nero Frederick Douglass (figlio di una schiava posseduta dal suo padrone) diceva, nello sposare in seconde nozze una donna bianca: «Col mio primo matrimonio ho reso omaggio alla razza di mia madre; col secondo, rendo omaggio alla razza di mio padre». Per tutta una lunga storia, intellettuali e figure pubbliche afro-americane hanno contestato una divisione bipolare della società in cui o eri tutto bianco o eri tutto nero, senza mediazioni. Per esempio, uno dei protagonisti “neri” del ‘900, W. E. B. DuBois, apriva la sua autobiografia proprio elencando puntigliosamente tutta la sua complicata discendenza da antenati di ogni colore e di ogni continente. Ma il paradosso era che Douglass, DuBois e prima di loro James Weldon Johnson, Charles Chesnutt – esempi viventi della unione interrazziale - potevano contestare questa secca costruzione ideologica solo partendo da dentro il recinto che volevano distruggere. Potevano contestare l’identità che gli veniva rovesciata addosso solo nell’atto di farla propria. Per poter dire che la “razza” non avrebbe dovuto contare, dovevano contare sui di essa.
Da questo punto di vista, per dirla con una immagine cara a Vittorio Foa, Barak Obama rappresenta la mossa del cavallo: il progetto di cambiare direzione al discorso, di collocarsi altrove. Ha scelto e ha dovuto farsi carico di quella storia che lo identificava tutto e solo come nero, ma lo ha fatto parlando da fuori del recinto, perché per quanto se ne faccia carico tuttavia non è quella la storia da cui proviene. Non ha bisnonni schiavi, nonni linciati, genitori arrestati e picchiati in Alabama negli anni ’60. E’ americano di prima generazione (e semmai c’è anche un’altra lezione da imparare: gli Stati uniti hanno eletto presidente il figlio di un immigrato), che rivendica la storia dei neri d’America ma non ne porta il peso e la rabbia (in questo senso era molto azzeccato il titolo de il manifesto di ieri: “Indovina chi viene a cena”. Perché rinviava a sì a un’esperienza afroamericana, ma a una figura come quella di Sidney Poitiers, che era parte della rivendicazione nera di cittadinanza, ma ne rappresentava l’aspetto meno minaccioso, meno contestativi, quello a cui in fondo potevi far sposare tua figlia – e generare così altri bambini sia bianchi sia neri ).
E’ presto per dire se la mossa del cavallo Barack Obama rappresenta una negazione prematura di un doloroso passato e di un difficile presente, o l’affermazione di un possibile futuro in cui un nero alla Casa Bianca non sia più sorprendente di una donna italiana eletta capo del governo in India. Forse, è tutte e due le cose: come dice lo straordinario finale di Amatissima di Toni Morrison, questa non è una storia “to pass on” – che, a seconda di dove mettiamo l’accento, significa o che non è una storia da tramandare oppure che non è una storia da trascurare. Forse Baraci Obama suggerisce che possiamo tramandarla come parte di una più vasta e molteplice storia dell’America intera.
Intanto, quello che mi commuove e mi entusiasma oggi non è solo il pensiero di Barak Obama “a cena” alla Casa Bianca. E’ il pensiero di quelle due bambine nere – piccole abbastanza da ricordarci che la differenza di Obama è anche generazionale – che per parte di madre la storia d’America ce l’hanno tutta addosso, che giocheranno in quelle stanze e correranno in quei giardini dove i loro antenati materni potevano entrare solo come schiavi o come domestici.

04 novembre 2008

Diario preelettorale americano

il manifesto - supplemento Break Point sulle elezioni USA
4.11.2008

Diario di un viaggio americano, da nord a sud, a due settimane dalle elezioni.
Martedi’, veniamo su da Youngstown, Ohio, capitale della deindustrializzazione, cantata da Bruce Springsteen, a un comizio di John Biden a Warren altra citta’ un tempo industriale. E’ mattina di giorno lavorativo, ma Siamo venuti su da Youngstown, capitale della deindustrializzazione, cantata da Bruce Springsteen ci sono un 1500 persone, in gran parte di estrazione sindacale. Spiccano le magliette gialle degli alimentaristi (con scritto “Sogno Americano per i lavoratori americani”), quelle viola delle Service and Electrical Industrial Union. Una buona presenza afroamericana, mescolata. Parlano il sindaco di Youngstown, il deputato locale Ryan, il segretario del sindacato minatori Trumka. Tutti affrontano questioni concrete che riguardano i lavoratori: salario minimo, assistenza sanitaria, i figli al college, diritti sindacali, i posti di lavoro persi per il patto di libero scambio col Messico e il Canada (Nafta). Qualcuno mi dice: come va il mondo dipende dagli Stati Uniti; come vanno gli Stati Uniti dipende dall’Ohio; e come va l’Ohio dipende dalle ex contee siderurgiche, Mahogin e Trumbull, Warren e Youngstown. Si sentono il centro del mondo, un centro ancora sorprendentemente sindacale e operaio.
John Biden fa un discorso aggressivo e coinvolgente. Parla delle sue origini familiari, del padre operaio licenziato e disoccupato; ricorda sarcasticamente che Bush e McCain avevano proposto di investire i fondi della sicurezza sociale sul mercato azionario; dice senza peli sulla lingua quello che tutti pensiamo di Sara Palin. Qui gli operai li chiamano “middle class” (ma gli scappa detto anche “working class”). E conclude: “una persona di classe media che vota McCain e’ come un pollo che vota per il colonnello Sanders”, quello del pollo fritto del Kentucky. Uscendo, una radio locale mi chiede che ne penso. Dico, tutto bello e giusto, pero’ chissà se anche i lavoratori messicani potranno mandare i figli al college.
Mercoledi’, Pittsburgh, Pennsylvania – altra ex capitale dell’acciaio. Congresso di storici orali, il voto per Obama e’ scontato. Ma una collega nera di Saint Louis dice, “se vince, vince per un pelo; in America ci sono troppi angoli oscuri.” Giovedi’ sera mi chiudo in camera a guardare il dibattito. Obama ha chiaramente ragione, anche se mi sembra meno chiaro di quanto fosse Biden a Warren. Biden parlava di salario minimo, Obama di ridurre le tasse a chi guadagna 200.000 dollari l’anno. L’ossessione sulle tasse deriva dall’idea originaria americana di liberta’ come mero attributo dell’individuo anziché prodotto di relazioni sociali - anzi, quasi l’opposto: la societa’ e’ un legame, la liberta’ consiste nel non averne. Così, se Obama parla di sanita’ pubblica, McCain propone di dare cinquemila dollari di buono a tutti per pagarsi ognuno l’assicurazione che gli pare, come gia’ si fa (e Obama è d’accordo) con la scuola. Lo slogan più radicale di Obama è “ridistribuire la ricchezza”; McCain la rigira (in perfetta malafede) dicendo a “Joe l’idraulico” che Obama vuole prendersi i suoi soldi e darli al governo per farli ridistribuire come dice lui. McCain a volte ha una faccia da pazzo, ma e’ aggressivo, parla le banalità che fanno effetto in TV e sembra avere quasi sempre l’ultima parola. Non sono contento di come e’ andata.
Venerdi’, mi fermo in un motel di Logan County – Appalachia profonda, infestata dai fantasmi di faide sanguinose, guerre civili fra operai ed esercito, antichi delitti. Sull’ascensore che mi porta al piano c’è scritto “ThyssenKrupp Elevators” – poi dice che uno e’ ossessionato. Sabato mattina attacco discorso con due camionisti. “Dopo il dibattito, alla cena dei famosi, McCain ha parlato bene di Obama. e Obama di McCain. Mi piace vedere che riescono a elevarsi oltre lo scontro personale”. Loro votano Obama. Gli pare piu’ affidabile; McCain non ha “people skills”, non ci sa fare con la gente. Come quasi tutti, ragionano sul carattere dei candidati;dei contenuti non si interessano – tanto, “siamo abituati ai politici che dicono tante cose e poi fanno il contrario, o solo quello che il Congresso gli permette di fare.” Dico, si parla sempre dei democratici reaganiani, i lavoratori bianchi che votano McCain… “A me Reagan piaceva, aveva quel bel sorriso…”. Del reaganismo proletario bianco gli rimane la convinzione che chi fa ricorso al welfare e’ un parassita che non ha voglia di lavorare. “Quando stavo in Texas mi hanno licenziato e non sapevo come mantenere la famiglia. Mi sono preso a pugni in faccia per una settimana prima di abbassare l’orgoglio e andare a chiedere il sussidio”. E la questione razziale? “Sul giornale di Louisville si è parlato di minacce, che se vince Obama ci saranno rivolte e violenze, ma non ci credo, sono cose del passato”. Confermano che spesso i picchetti che la gente si mette sul prato davanti a casa per fare campagna elettorale, quando erano a favore di Obama, sono stati strappati e deturpati.
Devio per Matewan – altro luogo di lotte, di faide e di stragi. Magari qualcuno lo sa dal film di John Sayles che ne porta il nome, un bel film che non dice neanche la meta’ di quello che e’ successo da queste parti. Matewan e’ ormai solo i binari dei treni interminabili, col lamento e il ritmo blues della sirena e delle ruote; e due strade, intitolate agli Hatfield e ai McCoy, le famiglie la cui faida e’ diventata una leggenda folklorica e svariati film hollywoodiani. Su un muro un cartello segnala due buchi lasciati dalle pistole il giorno del massacro con cui finisce il film (e con cui comincio’ tutto il resto). Davanti a un bed and breakfast inconro una coppia anziana. “McCain all the way”, dice la signora: “Io ero registrata come democratica e ero per Hillary Clinton, ma adesso mi sono informata e Obama non lo voto neanche per sogno”. E il marito: “Il popolo americano non e’ pronto per un presidente mussulmano”. A dirgli che non e’ vero non ci provo nemmeno. Sul prato davanti alla sede del sindacato minatori, l’unico cartello pro-Obama. Piu’ tardi, vengo a sapere che la National Public Radio ha fatto un servizio sulle elezioni a Logan County, e un ex minatore di 84 anni – dunque cresciuto in piena segregazione razziale – ha detto ad alta voce nell’accento di qui che lui votera’ per “’Bamer”. Forse con la crisi e l’impoverimento ceh si sentono addosso, la classe per quanto innominabile puo’ contare più del colore. Nel 2004, il West Virginia andò a Bush anche perché le compagnie più o meno costrinsero i minatori a votare per lui; adesso, Obama ha deciso di fare campagna elettorale anche qui, segno che non lo dà più per perso.
Faccio benzina a Pikeville, Kentucky. Un uomo giovane, barba fulva, occhi celesti, cappello a tese larghe, stereotipo vivente del proletario appalachiano, mi spiega: “Non c’e’ nessun rapporto fra il sistema politico e il popolo americano. Sno tutti corrotti. Da queste parti il popolo non ama i politici più di quanto ai vostri tempi storici il popolo romano non amasse Nerone”. Dico, quindi non voti? “Certo che voto: voto per Bob Barr, il candidato del Partito Libertario”. Il web del Libertarian Party, tradizionalmente espressione della destra bianca radicale, dichiara quasi un milione di contatti. La piattaforma e’ prevedibile: diritti individuali e nessun diritto o relazione sociale; governo minimo, protezione della proprietà senza se e senza ma, autodifesa armata, ambiguità sull’aborto. Chiedo, come vi mettete sulla razza? “Caro amico, ti ricordo che da queste parti un secolo e mezzo fa c’e’ stata una Guerra Civile. Il mio bisnonno ha combattuto con il Sud anche se noi non avevamo neanche mai visto uno schiavo, e non ce lo saremmo potuto permettere – una bocca in piu’ da sfamare, e neanche parente. La schiavitù non c’entrava: noi combattevamo per i diritti degli stati, e il Nord per salvare l’Unione. Vincevamo noi, perché avevamo soldati migliori, più convinti, finché i nordisti hanno tirato fuori la schiavitù, che va al cuore della gente …” Ma se vince Obama? “Vedremo che fa”. Non gli cavo una parola di più.
Sabato sera, Harlan, Kentucky. Dice Chester Napier, invalido per incidente di miniera: “stavolta non so proprio per chi votare. Non me la sento di votare per un presidente musulmano”. Sospetto che “musulmano” sia un codice per dire “nero”. Conosco Chester da piu’ di vent’anni, in casa sua ha ospitato amici afroamericani, sua figlia e’ stata sposata con un nero; ma gli ho anche sentito dire cose inquietanti. Forse per alcuni e’ piu’ facile superare le barriere razziali nel rapporto con persone concrete che non nell’astratto della politica. Comunque, per McCain non vota.
Domenica, un giro sul confine Kentucky-Virginia. A Harlan paese si vedono solo cartelli per McCain e Palin, sul retro dei pickup e affissi agli alberi. Ma verso il confine della contea, nelle ex citta’ minerarie di Benham e Lynch, che vantano combattive e solide comunità afroamericane e un’antica coscienza sindacale, compaiono anche cartelli per Obama. Passo Black Mountain, la montagna più alta dello stato, che la Arch Minerals voleva decapitare per estrarre il carbone a cielo aperto, ed e’ stata salvata dai ragazzini di Harlan che hanno fatto una catena umana attorno alla cima. Oltre il valico, il disastro: distese sterminate di deserto scavate dalle ruspe in mezzo a un fantastico paesaggio di morbide colline coperte da foreste di alberi di tutti i colori autunnali. Il giorno dopo, a Harlan, Carla Jo Barrett mi dice che sembra l’Irak dopo un bombardamento. La sera, in una chiesa pentecostale di Cranks Creek, un pianista scatenato (in chiese così e’ nato il rock and roll) guida un gospel che dice “Gesu’ e’ il mio dottore, mi scrive lui tutte le ricette”. Con una fede del genere, che bisogno c’e’ di servizio sanitario. O viceversa: senza servizio sanitario, ci vuole una fede del genere.
Anche Carla Jo è indecisa. Operatrice sociale, laureata, attivista ambientalista e antriviolenza, ha simpatia per Obama ma le piace anche Sara Palin. Carla e’ nipote della mitica Lois Scott – chi ha visto Harlan County USA di Barbara Kopple forse se la ricorda: e’ la donna che nel momento culminante dello sciopero dei minatori tira fuori dall’ampio reggiseno un’enorme pistola, e non c’e’ dubbio che sia pronta a usarla. Carla Jo identifica in Sara Palin la stessa tenacia e combattivita’ che fecero di sua zia una protagonista del movimento operaio (e magari lo stesso rapporto con le armi: questa e’ zona di fucili senza se e senza ma). “Certo,” dice, “mia zia era molto più progressista”. Ma ancora una volta, le idee politiche dei candidati contano meno del carattere e dell’immagine. Sara Palin tocca corde mitiche profonde della cultura di massa: si e’ accorto qualcuno di quanto ha in comune con Rossella O’Hara di Via col vento, modello della donna forte che non si ferma davanti a niente per raggiungere quello che vuole? Per fortuna Carla Jo si ricorda che zia Lois, per i suoi diciotto anni, le regalò l’iscrizione al partito democratico. “Se non riesco a decidermi, farò come ho sempre fatto: voterò per il candidato del mio partito”. Cioè Obama.
Mercoledì, congresso dell’American Folklore Society a Louisville, Kentucky. Una relatrice connette le storie su Obama (è musulmano, arabo, terrorista, antiamericano…) col filone delle leggende metropolitane e del “weblore”. Narrazioni mitiche e intercambiabili, impermeabili ai fatti. Parla Stetson Kennedy (92 anni: negli anni ’30 fondò la ricerca sul campo sulla cultura afroamericana, negli anni ’40 infiltrò e smascherò il KuKluxKlan, negli anni ’50 si candidò in Florida con una lista interrazziale e Woody Guthrie scrisse una canzone su di lui, recentemente incisa da Billy Bragg): “c’è un sacco di gente che vota a destra contro i propri interessi, ma non ce la dobbiamo avere con loro, sono brave persone travolte da uno tsunami di disinformazione”. Lo Herald Leader di Lexington, Kentucky (moderatamente pro Obama) scrive che la gente non prende più le informazioni dai giornali e dalla TV, ma da internet, dove impazzano incontrollate le voci piu’ assurde. E la scuola è in declino: il Louisville Courier Journal nota che la percentuale di ragazzi che arrivano al diploma diminuisce in tutti gli USA.
Però c’è un limite. Il voto anticipato vede la partecipazione di una quota di afroamericani molto più alta del solito. Gli scandali di Sara Palin (i vestiti e i viaggi a spese dei contribuenti e del partito) forse ne intaccano il mito. I sondaggi, per quel che vale, sono favorevoli. Io ho da sempre un test per i giornali: più facili sono le parole incrociate, più stanno a destra. Oggi quelle del Courier Journal sono praticamente inaccessibili.