11 dicembre 2008

ACCIAI SPECIALI. TERNI, LA THYSSENKRUPP, LA GLOBALIZZAZIONE

"IL GIRO DEL MONDO DEL LAVORO OPERAIO, DALL'UMBRIA AL KENTUCKY, DALL'INDIA AL BRASILE, DA DUISBURG A TORINO"

ROMA, DONZELLI EDITORE, NOVEMBRE 2008

Dal Capitolo 1

1. Pasticcini - 29 gennaio 2004

Nevio Brunori.[1] E’ stato l’inizio della fine. Quel giorno me ricordo che avevo finito de fa’ la notte, esco alle sei, cominciano a stacce voci, rumori, che se stava a decide’ qualcosa de grande al [hotel] Garden di Terni e de conseguenza andiamo al Garden di Terni. D’altronde è il futuro nostro, no?

Luciano Berni. [2] La notizia della chiusura [del reparto magnetico] c’è arrivata – c’era una preoccupazione, questo rincorrersi, questo altalenare de notizie, anche all'interno del reparto s’oscillava da momenti de euforia e de scoramento, nel senso che ce so’ stati i primi tagli sulla produzione, le centoventimila tonnellate che ciànno levato a novembre de una produzione de grano non orientato, quindi una produzione de più scarsa qualità, co’ la promessa, far diventare [Terni] polo d’eccellenza per la produzione migliore. Quindi rimanevano le famose novantamila tonnellate d’acciaio magnetico che davano prospettive de, insomma de’ anda’ avanti. Dopo sono diventate settantamila, poi smentite, insomma non se capiva più gnente. Fino a quando c’è stato il famoso 29 gennaio al Garden dove c’era previsto questo tipo de incontro co’ la dirigenza de la multinazionale. Insomma, senza anda’ tanto per il sottile, questi hanno detto che il polo ternano è diseconomico, hanno portato un’analisi economica fatta da un’agenzia americana, non so bene come fosse, insomma, e lì s’è detto in maniera piuttosto netta che la decisione del [Comitato di sorveglianza della ThyssenKrupp convocato per il] 9 febbraio era quella della chiusura del polo ternano. E da lì c’è stato questa reazione immediata…

Nel 2003, il Comune di Terni commissionò al Circolo Gianni Bosio di Roma e all’ICSIM di Terni[3] la produzione di un CD-Rom per ricordare il cinquantesimo anniversario della memorabile lotta della città e degli operai di Terni contro i tremila licenziamenti alle acciaierie nel 1952-53. Quella vicenda - la perdita dei posti di lavoro, la sconfitta politica e sindacale, ma anche la risposta della città, tre giorni di proteste e barricate – aveva segnato Terni come un trauma indelebile e una memoria di solidarietà e d’orgoglio.[4] Nella memoria della città, il martire simbolico di questa ribellione è l’operaio Luigi Trastulli (che in realtà era stato ucciso dalla celere nel 1949)[5]. Raccontava nel 2003 Paolo Raffaelli[6], sindaco di Terni, parlando a un teatro pieno di studenti:

Io [sono] nato nel 1953. Quando mamma me portava in giro per viale Brin[7] - io sono nato in cima a viale Brin, sotto le ciminiere dell’acciaierie – quando je dicevano, quanto cià ‘sto fijo signo’? Lei rispondeva: è nato l’anno de li du’mila. Essere nato l’anno de li du’mila – il ’53 era l’anno de li du’mila – e non c’era bisogno de di’ che anno era perché chiunque a questa risposta sapeva che ero nato nel 1953. L’anno dei duemila era l’anno dei duemila licenziamenti dell’acciaieria, la data della grande ristrutturazione da industria di guerra a industria di pace, il piano Sinigaglia.[8] Terni che in quel momento stava facendo lo sforzo di ricostruzione venne colpita da questo po’ po’ de catastrofe sociale che so’ duemila capofamiglia che si ritrovano in mezzo a una strada.[9]

Finimmo di stampare il CD-Rom con un po’ di ritardo, alla fine di gennaio del 2004. Ma quando andammo a portare il prodotto finito a Terni ci sentimmo rimpiombare dentro la stessa vicenda. Credevamo di fare storia, stavamo facendo cronaca. Il 29 gennaio 2004, la ThyssenKrupp, multinazionale tedesca che aveva rilevato gli Acciai Speciali Terni negli anni ‘90, aveva annunciato la decisione di chiudere il reparto magnetico, fiore all’occhiello dell’acciaieria, mettendo a rischio almeno 900 posti di lavoro fra dipendenti e indotto; e la città sembrava reagire come mezzo secolo prima, nell’anno de li du’mila: cortei, picchetti, blocchi stradali. Facemmo delle interviste, alcune in video curate da Marco Fornarola, Santi Minasi e Ulrike Viccaro;[10] distribuimmo qualche copia del Cd-Rom ai picchetti davanti ai cancelli – un gesto poco più che simbolico, ma che dava almeno a noi il senso di una relazione fra la storia e il presente, fra la ricerca, la riproposta e l’intervento.

Faliero Chiappini.[11] Vi è stata questa famosa riunione, in cui l’azienda ci annunciò la chiusura. Noi non ci aspettavamo una posizione così… non sapevamo. Eravamo lì ancora con la consapevolezza di dire la nostra. L’azienda ci annuncia la chiusura. Senza condizioni: non c’erano condizioni; quindi … senza discutere…

Lucia Rossi.[12] . E lì fu il primo momento di difficoltà seria, perché fino a quel momento non avevo avuto confronti con una multinazionale come la Thyssen; e la multinazionale comunica, non discute, non accetta il confronto, comunica decisioni che so’ state assunte altrove.


Al magnetico lavoravano 450 operai, la maggior parte giovani; almeno altrettanti posti di lavoro erano a rischio nell’indotto. E potrebbe essere solo l’inizio: sono in molti a pensare che sia a rischio non solo quel reparto, ma tutta l’acciaieria, cuore della città. “La notizia dei licenziamenti ha già raggiunto gli operai in fabbrica. Cellulari che trillano, sms. Chi stringe i pugni e chi si morde le labbra. I capi reparto: ‘Ragazzi, sciopero. Ci fermiamo qui. Interruzione totale della produzione. Blocco dei camion in entrata e in uscita. Certi sono andati a prendere la vernice spray per costruire gli striscioni. Gli altri, a decine, in marcia verso l’albergo dove ‘stanno i tedeschi’”.[13]

Lucia Rossi. In quel momento c’erano fuori tutti i lavoratori dell’acciaieria; avevamo costruito insieme questo percorso per cui fuori dal Garden c’erano i lavoratori e comunicammo all’esterno il fatto che c’era questa intenzione e allora i lavoratori entrarono dentro la stanza, che non ciaveva sbocchi, solo l’entrata, l’uscita non c’era, con tutti i lavoratori che pressavano per entrare e insomma c’è stato un po’ di parapiglia, hanno cominciato a vola’ le cose che c’erano. Tutte le cose che c’erano, le paste, c’erano i pasticcini e hanno cominciato a tira’ a tutti, me ricordo ancora l’assessore allo sviluppo economico e regionale, la Girolamini, che ciaveva tutta questa crema sui capelli…

“Quando gli operai dell’AST hanno sfondato le porte della sala dove stavamo discutendo con i dirigenti della Thyssen-Krupp,” racconta il giorno dopo il sindaco Raffaelli, “e insieme coi sindacalisti abbiamo fatto scudo coi nostri corpi per evitare il peggio, io mi sono girato con le lacrime agli occhi verso il direttore tedesco Trommer, e gli ho detto: ci state riportando indietro di mezzo secolo, a quando questa città fu ferita da duemila licenziamenti alle acciaierie. E io sono proprio di quell’anno.”[14] La storia sembrava ripetersi davvero. Certo, le analogie visibili insistevano su profonde differenze e cambiamenti; ma in quei momenti le forme della rabbia operaia sembravano le stesse. Nel 1953, l’impulso di passare alle vie di fatto era stato forte: “alcuni se misero insieme, aspettarono li capocchi, e glie diedero delle suste proprio tremende”, racconta, anche per memoria di storie di famiglia, la folksinger ternana Lucilla Galeazzi, figlia di un operaio licenziato.[15] Adesso: “una delegazione di lavoratori è partita proprio in tromba per entrare dentro. Infatti è stata abbattuta ‘na vetrata dell’ hotel Garden e siamo riusciti a [entrare]” (Nevio Brunori) ; “siamo andati giù, gli abbiamo sfondato la porta del Garden, siamo entrati dentro, è successo un bel macello, io quattro pasticcini glieli ho tirati, volavano le paste, i tramezzini de un rinfresco” (Emanuele Albi).[16]

Luciano Berni. …c’è stato questa reazione immediata, inaspettata pure, de questa irruzione all’interno dell’albergo con, veramente una sorta de caccia all’uomo, anche in maniera non molto ragionata sicuramente, però è chiaro, lì ce stanno persone de cinquant’anni che appena c’è stata la notizia, la prima reazione so’ state le lacrime, e subito dopo questa veramente d’anna’, dice annamo dentro, questi qui non se ne può più che ce buttano a monte tutto quanto, la storia, la vita de mille persone con una facilità così, estrema.

Nevio Brunori. A me quello che è rimasto impresso era la faccia di Trommer,[17] che ce lo siamo visto in fondo alla sala in piedi, con una mano sul tavolo, impietrito. In piedi, così. Sicuramente stava parlando in piedi. Quando è entrato questo gruppo di lavoratori lui è rimasto così, con la mano sul tavolo, ci guardava ma non aveva nessuna smorfia, impietrito. Non so se era un senso di sfida o di timore, so solo che lì sono cominciati, perché avevano anche preparato un piccolo buffet, sono cominciati a volare pasticcini, torte, un telefono è volato.

Alberto Galluzzi.[18] Ho vissuto tutta la lotta operaia; quello che ho letto dai libri e dai giornali per anni e anni l’ho vissuta dopo, dall’irruzione al Garden ... lì un’emozione, adrenalina a palla perché quando abbiamo deciso d’entra’, ce stavano due poliziotti lì alla porta che come ciànno visto in gruppo hanno chiuso e so’ scappati via e quando è stata rotta la porta e semo entrati non ciò capito più niente, perché me so’ fatto trascina’ dalla gente fino a lassù, me la ricordo tutta, le cameriere che scappavano via terrorizzate, che non capivano quello che stava a succede’, la polizia che ci diceva buoni, calmi, calmi, do’ andate, e poi fino all’irruzione nella stanza dove ce stavano tutti quanti in giacca e cravatta a parla’ del futuro nostro. Loro se so’... ho visto il terrore sulle facce loro perché non sapevano come annava a fini’, dove ci stava il famoso coffee break apparecchiato che gli è stato tirato tutto quanto, tutto appresso.

“Viale Bramante, la stazione ferroviaria, le stradine intorno”, riferisce il Corriere della Sera: “i negozianti hanno abbassato le saracinesche. ‘Sono lavoratori come noi. Difendono il posto di lavoro. Hanno ragione’. Polizia schierata. Qualche operaio più nervoso degli altri. Partono in mucchio. Si sente la porta d’ingresso dell’albergo che crolla in un tappeto di vetri. Un operaio si allontana con la mano sanguinante. Agenti che abbassano le visiere dei caschi. I quattro dirigenti tedeschi che, ascoltate le urla, si chiudono in un bagno. Poi escono e, rivolti ad un dirigente della questura, urlano: “Voi, adesso, ci portate fuori di qui, capito?” [19] Anche in questo frangente, non rinunciano a impartire ordini.

Luciano Berni. E allora lì, c’è stato subito, se cercava anche de studia’ un attimo un po’ la tattica pe’ non falli uscì dall’hotel, per cui anna’ a vede’ anche dietro se c’era delle uscite secondarie magari, sempre tallonati dalla Digos - e poi alla fine non ha retto nemmeno il cordone de polizia, nel senso che di fronte alla disperazione lì, è caduta giù sia la porta dell’albergo, che chi stava dietro. E quindi lì per lì noi c’è stato quest’attimo che non se capiva bene che succedeva dentro, un po’ la preoccupazione, anche per la gente che magari se creava qualche problema co’ le denunce eccetera. E lì c’è stato, da quello che ciànno raccontato, una presa de posizione sia del sindaco e del presidente della provincia, che se so’ un po’ messi in mezzo per cerca’ de vede’, de risolve la faccenda, hanno tenuto un po’ sotto controllo la situazione.

Nevio Brunori. I lavoratori, mi ci metto anch’io, abbiamo tenuto, costretto a rimanere in albergo questo Trommer, fino al pomeriggio, tardo pomeriggio. Poi per portare via questo Trommer la Digos ha fatto un exploit proprio, ha fatto quest’uscita precipitosa, che anzi uno de noi è andato a fini’ anche in ospedale, l’hanno preso sotto [con le macchine]. Fortunatamente non è successo nulla, ha preso solamente una botta.

Lucia Rossi. Di fronte a un movimento operaio che tutti davano per perso, anche in questo territorio, si diceva che il tessuto industriale, la classe operaia erano in qualche modo finiti, dovevano essere sostituiti, c’era un’idea di sviluppo diverso … e c’era invece questa cosa dal punto di vista proprio fisico che diceva il contrario: che ciài una classe operaia, che magari non cià le stesse caratteristiche di quella che ha costruito l’identità del territorio, è diversa, giovane, però ecco questa classe operaia che si schiera in difesa della fabbrica, completamente schierata, con i poliziotti, con quelli della Digos che cercavano di arginare questa situazione di difficoltà. Questa cosa ti dà la sensazione proprio visiva del fatto che c’è una classe operaia che è in difesa del posto di lavoro. Questa è stata una cosa proprio d’impatto che trasmette poi l’identità, le questioni politiche di fondo. Tu vedevi questi poliziotti schierati pure con paura perché se oltrepassavano il limite, c’eravamo tutti: c’era l’azienda, ma c’eravamo pure noi.

“Altri operai stanno bloccando le principali vie d’accesso. Barricate agli incroci con la via Flaminia e con la via Narni. Alle finestre, cittadini che applaudono”.[20] “Egoisticamente, io, a me mi brillavano l’occhi, da una parte c’era il dispiacere perché…” (Marco Allegretti).[21] “Te brillavano l’occhi perché vedevi la partecipazione totale di tutti quanti, i blocchi alle portinerie, il sostegno di tutta la città, istituzioni varie e compagnia bella, era bello per quello” (Marco Bartoli).[22]

Luciano Berni. E da lì dopo c’è stata subito la reazione d’occupa’ la strada. La prima cosa immediata, lì vicino c’era la superstrada, la prima cosa - che poi non se l’era filata nessuno insomma, la storia dell’acciaieria rimaneva sulla cronaca locale del quotidiano locale e basta, a livello nazionale sul giornale non se ne parlava. E allora lì s’è capito, no, che bisognava fa’ il salto, il salto de qualità, nel senso che se rimaneva solo una notizia de Terni sicuramente non avremmo inciso in alcun modo sulle decisioni, per cui la prima cosa più immediata, quello che ciabbiamo più a portata de mano, bloccammo la superstrada e da lì è cresciuto il tutto.

[1] Nevio Brunori, 1954, operaio Acciai Speciali Terni (d’ora in avanti, AST) in pensione, delegato Fiom, 18.3 e 29.4.08
[2] Luciano Berni (pseudonimo), 1959, operaio AST, 6.2.2004
[3] Istituto per la Cultura e la Storia d’Impresa “Franco Momigliano”
[4] Rinvio al mio Biografia di una città. Storia e racconto: Terni 1830-1985, Einaudi, Torino 1985, 304-12.
[5] Rinvio al mio “L’assassinio di Luigi Trastulli: la memoria e l’evento”, in Storie Orali, Donzelli, Roma 2007, pp. 25-57; id., The Death of Luigi Trastulli and other Stories. Form and Meaning in Oral History, State of New York University Press, Albany, N.Y. 1991.
[6] Paolo Raffaelli, 1953, giornalista, sindaco di Terni, 14.10.2003
[7] Il grande viale cha partendo dal centro di Terni, attraversando i quartieri operai, arriva ai cancelli delle Acciaierie.
[8] Il progetto di ridefinizione della siderurgia pubblica elaborato da Oscar Sinigaglia nel 1948 “privilegiava la siderurgia a ciclo integrale localizzata lungo le coste rispetto agli impianti collocati nell’interno che mostavano evidenti difficoltà di approvvigionamento”: ICSIM Newsletter, 2002, 2. C fr. Anche Ulrike Wachtler, Il piano Sinigaglia. Il progetto di rifondazione e ristrutturazione dell’industria siderurgica italiana nel periodo 1948-1952, Steelmaster- Corso di Formazione Superiore per addetti delle aziende siderurgiche, 1999, sul sito http://www.icsim.it.
[9] In “…è nato l’anno de li du’mila.” I licenziamenti alla ‘Terni’ (’48-’53), CD-Rom a cura di Alessandro Portelli, Diego Lucifreddi, Enrico Grammaroli, Santi Minasi, ICSIM-Circolo Gianni Bosio, 2004
[10] Il materiale girato è depositato nell’Archivio Sonoro “Franco Coggiola” del Circolo Gianni Bosio, presso la Casa della Memoria e della Storia del Comune di Roma.
[11] Faliero Chiappini, 1949, segretario generale Cisl Terni, 16.9.08
[12] Lucia Rossi, 1961, segretaria della Camera del Lavoro di Terni, 16.2.08
[13] Fabrizio Roncone, Chiude l’acciaieria, Terni in rivolta, “Corriere della Sera”, 30.1.04
[14] Paolo Raffaelli, intervista telefonica, 30.1.2004: Alessandro Portelli, Terni d’acciaio, la storia si fa cronaca, in “il manifesto”, 31.1.04
[15] Lucilla Galeazzi, 1950, musicista, 6.6.79
[16] Emanuele Albi, 1979, operaio AST, membro del direttivo Fiom, 18.3.08
[17] Wolfgang Trommer, presidente del comitato esecutivo della ThyssenKrupp Electrical Steel
[18] Alberto Galluzzi, 1981, operaio AST, 23.6.08
[19] Fabrizio Roncone, Chiude l’acciaieria,cit.
[20] Roncone, Chiude l’acciaieria, Terni in rivolta, cit.
[21] Marco Allegretti, 1973, operaio IRSV, 18.3.08
[22] Marco Bartoli, 1970, operaio AST, 18.3.08

ACCIAI SPECIALI. TERNI, LA THYSSENKRUPP, LA GLOBALIZZAZIONE

Due recensioni dal manifesto, 4.12.2008

Sapere OPERAIO - STORIA E STORIE DALLA CITTÀ-FABBRICA
Con «Acciai speciali», Alessandro Portelli propone, vent'anni dopo «Biografia di una città», una nuova storia corale di Terni. Passioni, rabbie e conflitti che intrecciano dimensione locale e globalizzazione
Michele Nani

«E quando ho ricevuto la notizia che il mio collega non ce l'aveva fatta stavo giù a Napoli. In un primo momento me ne scappai dentro la camera da letto vicino alla foto di mio padre e incominciai a piangere. E ti giuro, vederti un mozzicone di otto anni che ti viene vicino e te dice, Papà non piangere, se hai la possibilità fagliela pagare a 'sti crucchi di merda - è un bambino, significa che ha già capito tutto della vita». La dolorosa testimonianza di un lavoratore della ThyssenKrupp di Torino evoca le parole di O cara moglie (la canzone di Ivan della Mea del 1968) o quelle coeve di una lettera di Rodari a Bollati («i bambini non vivono in un "mini-mondo", ovvero stanza dei giocattoli, ma nello stesso mondo degli adulti ... e il mondo degli adulti il bambino lo vede e lo giudica»). Assieme a decine di altre, la testimonianza di Giovanni Pignalosa va a comporre lo straordinario mosaico di Acciai speciali, l'ultimo libro di Alessandro Portelli (Donzelli, pp. 229, euro 25). Con l'idea di aggiornare, vent'anni dopo e migliaia di posti di lavoro in meno, Biografia di una città (Einaudi 1985), la storia corale di Terni basata sulle fonti orali, Portelli è tornato in Umbria a raccogliere interviste nel fuoco delle lotte del 2004-2005. La città aveva mostrato le stesse reazioni del 1952-1953: la rabbia operaia e la solidarietà comunitaria avevano risposto all'annuncio di un migliaio di licenziamenti, proprio come a quello dei tremila di mezzo secolo prima. Se storia e cronaca del conflitto sembrano confondersi, restano tuttavia indelebili le differenze: prima fra tutte il senso della storia e della continuità. Il «socialismo» e la «vittoria» finale sono scomparsi e con essi l'idea stessa di un futuro utopico ma possibile. La classe operaia ternana è stata ridimensionata, scomposta dalla quota crescente di lavoro appaltato a ditte esterne, faticosamente ricomposta da nuove ondate generazionali, più scolarizzate e più precarie, che spesso vivono la fabbrica come blocco della mobilità sociale e perdita di status. L'immagine «deprezzata» dell'operaio - per servirci dell'espressione di un altro intervistato - non traduce tanto la riduzione quantitativa del lavoro manuale o un'offensiva mediatica di antico sapore classista, ma un mutamento dei rapporti di forza nella società. Queste trasformazioni rimandano anche all'allontanamento della politica e della «alta» cultura dai mondi operai, dalla scelta di non rappresentarli o dalla difficoltà di trovare le forme per imporne la voce nella sfera pubblica: che accompagna e approfondisce la disaffezione operaia per la politica, drammaticamente assente nelle interviste ternane.Le rotture non vanno tuttavia enfatizzate e Portelli mostra con maestria come le stesse culture giovanili siano contaminate da tratti della «storia profonda» della città e della cultura di fabbrica: il collettivo antifascista «Brigata Cimarelli», l'antagonismo antitedesco che recupera la memoria resistenziale e perfino gli studenti, figli di operai italiani e rumeni, che improvvisano una sassaiola in stazione una volta appreso dell'arrivo dei rappresentanti dell'azienda. Resta soprattutto il «sublime operaio», come lo definisce acutamente Portelli: la coscienza dell'immenso potere di trasformazione che risiede nelle mani dei lavoratori, base della produzione dei beni e del loro valore, che si sposa alla coscienza di una doppia espropriazione, lo sfruttamento economico e l'esclusione dalle decisioni fondamentali. Persino l'abbinata fra calcio e conflitto sociale, una costante ternana, riemerge in forme imprevedibili: una delegazione di fabbrica entra in campo e ritarda l'avvio della partita, accolta dalla curva rossoverde con slogan che si penserebbero desueti («il potere dev'essere operaio»); poi, quando il parlamento europeo si riunisce per valutare il comportamento della ThyssenKrupp, un «movimento spontaneo operaio», nell'autodefinizione dei giovani lavoratori che lo costituiscono, organizza un pullman per presenziare alla seduta e dinanzi al rifiuto delle autorità locali lo paga per metà con una colletta, mentre l'altra metà è offerta dalla Ternana.Un anno dopo la reazione del 2004, la vicenda si chiude con un secondo affondo dell'impresa, che sancisce la fine del reparto di eccellenza dell'acciaio «magnetico», con salvaguardia dei livelli occupazionali e stabilizzazione di parte dei contrattisti: una strategia calibrata, che divide non solo la politica locale e i sindacati, ma anche gli stessi lavoratori. Del gioco della multinazionale fa parte anche la successiva chiusura degli impianti torinesi, con trasferimento temporaneo di alcune decine di operai a Terni e disinteresse per le norme di sicurezza in una produzione a termine che fa ampio ricorso agli straordinari per coprire i buchi di organico: con gli esiti tristemente noti del dicembre 2007. I rischi sono presenti anche a Terni, dove due operai che lavorano in appalto trovano la morte negli stessi anni, una pletora di infortuni scandisce i tempi della produzione e dopo l'amianto incombono le malattie professionali da polveri.La storia di Acciai speciali non è quella di un piccolo pezzo di mondo, ma l'intreccio locale di tante storie ben più larghe e profonde. La storia della «globalizzazione», con la direzione d'impresa unita e sostenuta da governi e istituzioni, e gli operai divisi, non solo da Terni a Torino, e fra Italia e Germania (nonostante i comitati d'impresa a livello europeo, peraltro qui menzionati di sfuggita solo da un sindacalista), ma fino in India, Brasile e Stati Uniti. La storia dell'autoritarismo delle multinazionali, che stipulano accordi per prendere tempo e li sconfessano una volta esaurita la fase calda della lotta: un potere che funziona solo a distanza, che fugge scortato dalla polizia dinanzi all'assedio operaio (dalle porte secondarie dell'albergo ternano come da quelle della sacrestia ai funerali torinesi) e che vive patologicamente il conflitto (a un responsabile delle risorse umane in India sconsigliano di visitare gli stabilimenti di Terni: «Arrivi con le tue gambe, ma non è detto che con le tue gambe te ne vai»). La storia delle privatizzazioni, viste per trent'anni come rimedio a tutti i mali e, soprattutto, promosse dai governi senza alcuna garanzia sociale o indirizzo. La storia delle difficoltà sindacali e del riflusso dopo i compromessi, vissuti come sconfitta e tradimento, fino alla sfiducia dei lavoratori nelle possibilità stesse di una democrazia sui luoghi di lavoro, per la doppia impotenza, dei sindacati di fronte alle imprese e dei lavoratori di fronte al sindacato. Eppure, in un contesto così difficile, dobbiamo essere grati a Portelli e ai suoi interlocutori, perché hanno saputo raccontarci anche la storia del sempre nuovo «crogiolo» rappresentato dalle lotte sociali, al di là e contro tutti i luoghi comuni sui giovani, sugli operai e sugli immigrati.


MEMORIE
Frammenti di classe nelle voci dei protagonisti
Loris Campetti

Una cosa che gli imprenditori e tanti politici, per quanto si sforzino, proprio non riescono a capire è la cultura operaia - meglio, le culture operaie, diverse, frantumate, ma unite da valori condivisi. Pensano che ci sia una sostanziale equivalenza tra lavoro e salario, per cui sarebbe sufficiente garantire un reddito per risolvere il problema determinato da una crisi industriale, o da un processo di riorganizzazione globalizzata. Se così fosse, basterebbe spostare un operaio da un posto all'altro, o tenerlo a casa in cassa integrazione. Le cose però stanno diversamente: se per chi vive fuori da un gigante d'acciaio, il lavoro è solo un'appendice della macchina, pura variabile dipendente del meccanismo di accumulazione, per l'operaio siderurgico il lavoro è insieme maledizione e condizione vitale. Non identificazione, perché la fabbrica è un mostro che inghiotte braccia e cervelli, pur non riuscendo a cancellare la domanda di senso di quel che si fa, né ad annullare la volontà di farlo nel modo migliore, a costo di mettersi in gioco per difendere la dignità o persino la vita. Fabbrica è insieme lavoro, territorio, soggettività, bisogni e vissuti diversi. Può essere più doloroso perdere il lavoro che il salario, se ci si ostina a pensare oltre che a sé e all'immediato, anche al futuro, ai figli e ai compagni più giovani, alla struttura sociale e culturale in cui il lavoro si esercita.L'ultimo libro di Alessandro Portelli, Acciai speciali, è il migliore aiuto per capire qualcosa della complessità di questa condizione. È dalla stagione lontana delle inchieste operaie che non si ritrova tanto rigore nell'indagare su un frammento di classe, senza la pretesa di suggerire a ogni intervista «la» chiave di lettura. La linea, si diceva un tempo. In Acciai speciali troverete le parole, le passioni, la rabbia degli operai, l'orgoglio di chi pensa che l'unica battaglia persa sia quella che non si è combattuta. Il luogo è Terni, città fabbrica ancor più di Torino. Chi dà voce ai protagonisti (che sono insieme operai, ultras, innamorati, magari cocainomani, italiani o rumeni ma comunque ternani) resta sempre nascosto dietro le quinte. Solo alla terzultima pagina Portelli si concede la parola: «Uno come me, che ha sempre lavorato con l'immaterialità delle parole, non può evitare di sentirsi un po' intimidito di fronte alla concretezza dell'acciaio e dei suoi saperi. Tanto più che fin dai miei primi incontri con la cultura operaia mi sono accorto che quelli che danno forma all'acciaio sanno quasi sempre dare forma anche alle parole».La storia dell'acciaieria di Terni è lunga decenni, la memoria dei padri è trasmessa ai figli e ai nipoti, le microstorie si contraddicono e si accavallano, lotta dopo lotta. Scioperi, occupazioni, presidi ai cancelli, blocchi stadali e ferroviari per difendere, insieme ai posti di lavoro, i saperi, la cultura degli individui e della città che ha per simbolo la pressa della prima acciaieria, una icona e un monumento nella piazza della stazione. L'ultima battaglia per salvare il magnetico dal padrone tedesco che vuole ridislocare le produzioni migliori là dove lavoro e diritti valgono ancora meno che a Terni o a Torino, ha ricostruito i legami della città, in una rinata solidarietà con i suoi operai, che rifiutano la svalorizzazione del lavoro. Una battaglia più persa che vinta, quando le solidarietà nella città e nella fabbrica si allentano. Il magnetico se ne va, il lavoro resta ma svuotato, l'Italia acquisterà dall'estero quello stesso prodotto. Operai maleducati rispetto ai padri, con slogan più da stadio che da fabbrica, orgogliosi, persino campanilisti. Un bene comune per una città di provincia che non voglia perdersi.Di lavoro, a Terni come a Torino, si vive e si muore. Ma a Terni si muore più che nelle acciaierie tedesche dello stesso padrone ThyssenKrupp. E ancora di più si muore a Torino. La battaglia degli operai umbri viene scavalcata dal dramma consumato a Torino, sette operai bruciati in nome del profitto. Nelle tasche e nei computer dei dirigenti del gigante tedesco sono state trovate le carte che spiegano come loro intendono la sicurezza: massima a casa, in Germania, appena accettabile a Terni dove l'acciaieria si impoverisce con la perdita del magnetico, quasi nulla a Torino perché di quella fabbrica è stata decretata la fine e non si buttano soldi per garantire la sicurezza in uno stabilimento morente. Neanche gli estintori funzionavano e sette operai sono stati uccisi, insieme alla fabbrica, alla tredicesima ora di lavoro perché lassù erano rimasti in pochi, gli altri licenziati con buonuscita, cassintegrati, trasferiti a Terni. La strage nel libro di Portelli è vista e raccontata da Terni, fa riflettere, fa piangere e incazzare come ai funerali delle vittime, dove si buttano giù per le scale della chiesa le corone del padrone. Si ricostruiscono i nessi di una globalizzazione che frantuma e mercifica il ciclo produttivo e le persone. Portelli vola in India e nel mondo per scoprire questi nessi nel racconto dei protagonisti. Il processo a sei dirigenti della multinazionale tedesca sta per iniziare. L'accusa è inedita: omicidio volontario con dolo eventuale, erano cioè a conoscenza dei rischi che facevano correre ai loro dipendenti, ma ritenevano più importante salvaguardare i profitti del padrone che le vite di chi li rendeva possibili. Ma questa è cronaca. La storia è quella che Portelli fa raccontare ai lavoratori.