03 febbraio 2009

Dalla parte di Golia

il manifesto, .2.09

Per fortuna, neanche stavolta c’entra il razzismo. Un poliziotto ammazza a fucilate il vicino senegalese a Civitavecchia: è una banale lite di condominio. Tre ragazzi bruciano vivo un senza casa indiano a Nettuno: è una ragazzata, magari quasi omicida, ma si sa, i ragazzi si annoiano e tutti siamo in cerca di emozioni. E davvero, sono quasi tentato di crederci: il razzismo c’entra, ma non è un ingrediente isolabile, un’ideologia motivante; è piuttosto una componente ormai intrinseca e indistinguibile di un senso comune di violenza e sopraffazione che se non è diventato egemonico, poco ci manca. Coltellate, fucilate, violenze sessuali fanno tutte parte di un’unica grammatica dell’annientamento e dell’umiliazione dell’altro (anche la violenza sessuale è una forma di assassinio, in cui nonostante le strizzate d’occhio del nostro presidente del consiglio il desiderio sessuale non c’entra per niente). E questo senso comune è condiviso tanto dai cinque romeni stupratori di Guidonia o dai tre marocchini che avrebbero violentato una donna (romena) a Vittoria in Sicilia, quanto dall’italiano stupratore di una cilena, dai ragazzetti di Campo de’ Fiori accoltellatori di un americano, dal bravo ragazzo violentatore di Capodanno a Roma. E da tanti episodi meno sanguinosi ma diffusi nelle famiglie, nelle strade, negli stadi, nelle scuole, nelle caserme…
La sola differenza – e qui il razzismo c’entra espressamente – è la strategia di depistaggio messa in modo da politici e media. Quando, sempre a Guidonia, nel 2006, fu una donna romena a essere violentata per ore da un italiano la notizia non riempì le prime pagine ma si esaurì in due righe in fondo a un comunicato Ansa e a un trafiletto del Corriere della Sera. Non ci furono ronde di patrioti indignati nei bar e nelle carceri, circondate da simpatia e complicità della brava gente circostante. Perciò far credere che la violenza sia un portato dell’immigrazione, è un modo per parlare d’altri e non di noi – a cominciare dall’altra cosa che tutti questi episodi hanno in comune: il genere maschile degli aggressori e la debolezza delle vittime.
Molti anni fa, il sociologo David Riesman diceva che nella società di massa la fiaba di Pollicino ammazza-giganti si sarebbe trasformata nella fiaba di Pollicino ammazza-nani. Infatti adesso siamo tutti dalla parte di Golia: anche le guerre, dall’Iraq a Gaza, esibiscono e addirittura vantano la sproporzione tra i deboli e i forti.
Essere o sembrare deboli, nella modernità della competizione, della deregolazione, dell’individualismo e del mercato elevati a religione, è una colpa in sé. E’ una colpa essere donna, è una colpa essere sena casa, è una colpa essere nero. E forse la colpa peggiore di tutte queste minacciose debolezze sta nel fatto che mettono a nudo la debolezza profonda dei “forti”, la precarietà del loro diritto, la tranquillità del loro dominio. I potenti non riescono a vincere davvero le guerre, i violenti non fanno che mettere in scena la loro paura, i razzisti non riescono a sentirsi superiori alle loro vittime, la finanza globale va in rovina e porta rovina con sé. La rabbia frustrata di chi si crede forte e si accorge di non esserlo più produce violenza. Fermarla, o almeno porvi un limite, è un lavoro di profondità e di lungo periodo, una costruzione di socialità nuova, di rapporti civili fa le persone, di politica coraggiosa e anticonformista. Altro che “essere cattivi” con i “clandestini” – cioè, essere come quelli che li bruciano vivi - come vaneggia nella sua frustrazione impotente il povero Maroni. Non la fermeranno certo i poliziotti per le strade, i vigili urbani con la pistola e la licenza di sparare: anzi, saranno un’ulteriore modello di ruolo per i futuri aggressori, un’altra esibizione di forza impotente, e un altro esempio di quella politica bipartitica – quella sì, “cattiva” politica - che alimenta queste paure e se ne nutre.

02 febbraio 2009

La materia del ricordo - Geografia della memoria

il manifesto 30.1.2009

C’è una canzone di Dolly Parton, diva country esageratamente sexy ma non per questo poco intelligente (un’altra sua canzone dice, “giusto perché sono bionda non pensare che sono scema”), in cui descrive la povera casa di montagna in cui è cresciuta, col vento e la neve che si infilavano nelle fessure fra i tronchi, e la famiglia amorosamente raggomitolata per riscaldarsi. E dice: “tutto l’oro del mondo non basterebbe per portarmi via i ricordi che ho di quel tempo; tutto l’oro del mondo non basterebbe a riportarmi indietro e viverlo ancora.” In una frase sola, Dolly Parton concentra alcune delle tensioni esplorate nel mirabile e complesso libro di Antonella Tarpino, Geografia della memoria: la casa come luogo e metafora della memoria, anzi delle memorie – una memoria referenziale che evoca una condizione, uno stile di vita (nel libro di Tarpino, soprattutto i Sassi di Matera ma anche il quartiere operaio di Falchera a Torino), e la “memoria affettiva” di una “casa della mente” (in Geografie della memoria, soprattutto le case letterarie di Foster e James).
“La memoria,” scrive Tarpino, “è un elemento perturbante nel flusso della vita, insidia i contorni di ciò che vediamo confondendoli con i ricordi di quel che abbiamo già visto, mescola le emozioni del presente con quelle trascorse. Eppure, in questa contesa estenuante, la memoria cerca di tenere insieme i diversi volti del nostro racconto nel tempo.” In questa definizione, mi pare che la parola chiave sia “cerca”: la memoria, cioè, non come deposito di dati ma come soggetto attivo, lavoro costante, ininterrotto, mai finito. E anche se le memorie possono apparire “imprigionate” negli oggetti o “congelate nelle pietre di antichi quartieri”, in realtà penso che certe volte succeda il contrario, cioè che siano gli oggetti ad essere avvolti dal lavoro della memoria che continuamente ne cambia il senso e la percezione.
Così, il libro di Antonella Tarpino esplora l’incessante viaggiare fra una dimensione archetipica della memoria e una sua dimensione storica, mutevole. Da un lato, la memoria è costitutiva degli individui e dei gruppi sociali, che senza di essa letteralmente non esisterebbero come tali (“Memoria e spazio, una polarità che, negli studi di Leroi-Gourhan, si riconosce costitutiva, fin dalle origini della vita dei gruppi umani”; una memoria affettiva “che affonda le radici del substrato emotivo della propria storia intima là dove l’esistenza ha avuto inizio” e si concretizza spazialmente nella “casa della mente”). Dall’altro, la memoria è una relazione che individui e gruppi intrattengono dialogicamente con sé stessi passati e con gli oggetti e gli spazi che al passato rimandano, e che quindi cambia con il cambiare di chi ricorda e del suo rapporto con il ricordato.
Tarpino esplora soprattutto la prima dimensione nelle pagine sui Sassi di Matera; la seconda - quella che giustamente chiama “storia della memoria” - nel capitolo su La casa Howard di E. M. Foster e Ritratto di signora di Henry James, e le loro versioni cinematografiche di Ivory e di Jane Campion. Entrambi i testi letterari esplorano, in modo diverso, la relazione fra una struttura sociale incorporata nelle case e negli oggetti, e la sua crisi rappresentata dall’intrusione di nuovi oggetti e nuove soggettività. Così, nel libro di Foster, l’automobile diventa la figura di quella che l’autore chiamava “architettura della fretta”, “civiltà del bagaglio”, “età della collera e dei telegrammi” – figura e insieme strumento della moderna mobilità ossessiva e della labilità dei rapporti rispetto alla permanenza e stabilità affettiva della casa.
Paradossalmente, è proprio l’accuratezza filologica della ricostruzione filmica di Ivory a trasformare il senso dell’intera vicenda. Nel film, infatti, quegli oggetti che nel romanzo rappresentano l’irruzione lacerante nel nuovo, diventano essi stessi oggetti di antiquariato coperti da una patina di nostalgia: quelle automobili che ancora cercano di somigliare a carrozze, per esempio. Non sono cambiati gli oggetti, siamo cambiati noi (e ancora paradossalmente, direi, questo non avviene nella lettura, dove gli oggetti siamo chiamati a raffigurarceli anziché vederli raffigurati da qualcun altro sullo schermo) e quindi cambia il nostro lavoro della memoria e il significato che costruiamo ricordando.
Il lavoro della memoria, dunque, è capace di modulare anche il senso di spazi destinati a trasmettere nel tempo un significato il più stabile e fisso possibile, come i monumenti. E’ quello che Tarpino mostra eloquentemente nel capitolo dedicato a Oradour, il villaggio distrutto con tutti i suoi abitanti uccisi nella più tremenda strage nazista in terra di Francia. All’interno di una vera e propria battaglia fra la memoria dolente del luogo e i tentativi di autoassoluzione della memoria nazionale, le rovine del villaggio distrutto sono state preservate “a custodia imperitura” come le avevano lasciate i nazisti, accanto al paese ricostruito poco più in là. A lungo, la vita stessa del villaggio ricostruito è parsa come congelata nel tempo della sua stessa fine, rappresentata da quelle rovine. Ma anche qui, la precisione filologica del restauro e della preservazione ha generato la stessa modulazione di senso: gli oggetti di una vita quotidiana recisa brutalmente in un solo colpo, le insegne dei mestieri di un tempo, gli arredamenti delle case, accuratamente preservati nel loro stato di allora, fanno di Oradour una piccola Pompei della modernità, conservano agli occhi dei sopravvissuti i resti della casa della loro infanzia, e questo monumento alla crudeltà nazista diventa anche un luogo di memoria e persino di nostalgia di un modo di vita scomparso e ricordato. Insomma, come il tempo trasforma in antico ciò che era nuovo, così il cambiare dei soggetti nel tempo aggiunge sempre nuovi strati di senso alla loro relazione con gli spazi e le cose del passato.
C’è molto di più in un libro come questo, che attraversa psicologia, sociologia, architettura, urbanistica, letteratura, storia e ricompone tutte queste competenze in una sintesi più ricca e complessa. Io forse avrei voluto che accanto agli spazi e alle case si fosse dedicato altrettanto approfondimento alle persone che ricordano (come avviene almeno nel capitolo sulla Falchera), e mi sarebbe stato utile un indice analitico. Ma il libro ci può servire da guida nei nostri movimenti e nel nostro abitare di oggi. Leggendo come a Oradour si sono protetti e preservati anche i buchi dei proiettili nelle mura della chiesa dove furono uccisi donne e bambini, mi sono ricordato di quando insistemmo a Roma perché non venissero cancellati i buchi delle pallottole naziste sui muri di via Rasella. E quando cammino nel mio quartiere, la descrizione della compresenza alla Falchera fra l’urbanistica industriale moderna e i resti dei casali e delle cascine rurali mi aiuta a riconoscere, in mezzo e sotto alle palazzine della speculazione edilizia quello che rimane delle case semirurali di borgata e delle botteghe artigiane di poco più di una generazione fa. Ogni oggetto, ogni spazio, ci insegna Geografia della memoria, è insomma come quei winter counts che i nativi del Nord America dipingevano sulle pelli di bisonte, inverno dopo inverno, come annali pittografici della loro storia: “testi” che non ci raccontano il passato ma che inducono, e ci aiutano, a rievocare la nostra relazione con i tempi molteplici di cui noi, le nostre cosa e le nostre case, siamo fatti.