07 aprile 2009

Leggenda, mito e ideologia: ancora su "Avvenire" e le Fosse Ardeatine

il manifesto, 4 aprile 2009

Qualche giorno fa, a proposito delle “rivelazioni” lanciate da Avvenire e dal TG2 sul presunto (e mai avvenuto: ) invito dei nazisti a che i partigiani che li avevano attaccati a via Rasella di consegnassero a loro per evitare la rappresaglia, parlavo di “leggenda metropolitana”. In un commento di qualche giorno fa, l’Avvenire lamentava che questa definizione è “liquidatoria.” Scrivo queste righe anche per spiegargli che parlare di “leggenda” non è un modo di liquidare una narrazione, ma precisamente un modo di prenderla sul serio per quello che è.
“Leggenda” infatti è un termine tecnico degli studi sulla narrazione popolare: secondo la definizione che ne fanno studiosi come Linda Dégh o Carla Bianco, è “una storia non vera creduta vera”. Che la storia della mancata consegna dei partigiani sia una storia non vera è ormai fuori di dubbio: persino i responsabili e i supremi comandi i tedeschi dissero chiaramente in sede giudiziaria di non averci mai nemmeno pensato, e non si vede che interesse avessero a mentire su una circostanza per loro attenuante. La domanda allora è che cosa rende questa errata narrazione così resistente e così diffusa.
La pièce de resistance delle “rivelazioni” di Avvenire è che una persona che dice di aver visto il manifesto che invitava i partigiani a consegnarsi è un antifascista. Non è una gran scoperta: questa credenza infatti è diffusa, o almeno lo è stata, anche in ambienti di sinistra. Come ho avuto occasione di scrivere, ci credevo anch’io prima di informarmi meglio. Una leggenda, infatti, può avere un’origine ideologica e propagandistica, ma prende piede e vive per motivi molto più profondi dell’ideologia. Insomma, non è che i filofascisti credono che il manifesto è esistito e gli antifascisti non ci credono: è che per gli uni e per gli altri, e per quelli che non sono né l’uno né l’altro, questa storia tocca altre emozioni, altri strati dell’identità personale e sociale.
In un certo senso, proprio la diffusione di racconti errati dice sulla strage delle Fosse Ardeatine la cosa più radicale: è quasi impossibile credere a quello che è veramente successo, e per questo si coltivano narrazioni alternative. Quello che è successo è che degli esseri umani, per reagire a un’offesa, hanno massacrato a sangue freddo 335 persone che non c’entravano niente. Di fronte a questo assurdo, che chiama in causa la natura stessa di noi esseri umani, che denuncia quello di cui noi esseri umani siamo capaci, ci sono due possibili uscite. Una consiste nell’allontanare da noi l’evento, negando che i perpetratori fossero esseri umani: “la belva nazista”, la “ferocia”, la “bestialità” (ma anche i tedeschi come “macchine”) di cui parlano tanta retorica commemorativa e tanti stereotipi antitedeschi. L’altra strada consiste invece nell’accostare l’evento a noi immaginando motivazioni umane e logiche ai perpetratori: avrebbero preferito non farlo, ma ci sono stati costretti dalla vigliaccheria di altri. Una terza via sarebbe quella di interrogarci sulla nostra stessa umanità; ma è ovviamente la strada più difficile.
Ora, in quanto storia non vera onestamente creduta vera, la leggenda è suscettibile di smentita. Se veniamo a sapere che esistono prove inconfutabili che Romolo e Remo non sono stati allattati da una lupa, smettiamo di crederci e spostiamo tutto su un altro piano. Ma se invece nonostante prove documentarie e logiche della non verità del racconto continuiamo a proporlo come verità, allora dalla leggenda passiamo al mito: una narrazione, vera o non vera, talmente necessaria per sostenere un’incrollabile convinzione esistenziale o ideologica da non poter essere scalfita da nessun fatto perché viene creduta a priori e ci si resta aggrappati come tante narrazioni a cui si crede per fede.
Nella campagna antipartigiana in corso, allora, si toccano due estremi: la credenza mitica e la pervicacia ideologica. L’impulso di trovare delle scuse ai massacratori nazisti pertiene al mito nella misura in cui serve a non mettere in discussione la nostra idea di dove possono arrivare gli esseri umani, e quindi noi stessi. Ma la pervicace attribuzione di colpa ai partigiani, specie nel modo soddisfatto e aggressivo in cui è presentata, è invece di schietta natura ideologica: non serve tanto a salvare il nostro senso di umanità, quanto a salvare la cattiva coscienza di istituzioni che, loro sì, pur essendo state informate di quello che si preparava (come risulta dai loro stessi documenti), non risulta abbiano fatto niente di significativo per fermarlo. La leggenda metropolitana è una cosa umana e comprensibile; il mito è questione di fede; l’errore giornalistico è cattiva professionalità; e l’insistenza ideologica nell’errore è colpa grave. Di questo parliamo.

I fatti non bastano. Riflessioni su "Fabbrica" di Ascanio Celestini

NB. Questa è una cosa che ho scritto per sbaglio. L'editore mi aveva chiesto di scrivere un'introduzione a "Scemo di guerra" di Ascanio Celestii e io invece mi sono sbagliato e ho scritto un'introduzione su "Fabbrica" che naturalmente non verrà mai pubblicata. Siccome non mi andava di buttarla, la metto qui.

I rossi aborigeni!
Lasciando aliti naturali, suoni di pioggia e vento, richiami come di uccelli e animali nei boschi, sillabati per noi come nomi;
Okonee, Koosa, Ottawa, Monongahela, Sauk, Natchez, Chattahoochee, Kaqueta, Oronoco, Wabash, Miami, Saginaw, Chippewa, Oshkosh, Walla-Walla;
Lasciando tali cose agli Stati, si sciolgono, si allontanano, marcando l’acqua e la terra coi nomi
(Walt Whitman)

Leggendo e ascoltando Fabbrica di Ascanio Celestini, mi restano impressi i nomi. Come i Chippewa e o Monongahela, anche Libero, Ribelle, Avanti e Veraspiritanova sono veramente esistiti: “rossi aborigeni”, comunisti e anarchici vissuti qui prima di noi. Me ne parlò un loro fratello che a sua volta si chiamava Comunardo, operaio chimico e sindacalista bracciantile, una sera nella sede di Rifondazione Comunista a Terni. E’ veramente esistita Dinàme, che nella sua casa dietro il muro della fabbrica mi raccontava antiche storie notturne di banditi, e che portava nel nome l’identità modernistica della sua città detta “la dinamica”. E’ veramente esistito Pensiero, operaio siderurgico, diventato giornalaio dopo che lo cacciarono dalla fabbrica, padre della folksinger Lucilla Galeazzi con cui Ascanio mise in scena l’altro grande spettacolo operaio, Sirena dei mantici.
Non erano alti dieci metri, ma avrebbero dovuto esserlo. Comunque, erano alti dieci metri i loro nomi, espressioni di un’epica proletaria immaginata a dimensioni geologiche, che Ascanio raccoglie raccontando la storia operaia come le età dell’uomo e le ere della terra, ai tempi in cui “ci stavano i giganti”. Erano, quei nomi, il segno di un desiderio di poesia, di grandiosità, di bellezza in esistenze quotidiane segnate dalla ferma concretezza dell’acciaio. E’ veramente esistita Solidea, sola idea, madre di una mia studentessa; come Pensiero, recava nel nome la fede nel l’idealità, la mente, lo spirito (vero e nuovo) a lungo coltivata da esseri umani che lavoravano con la materia e le mani.
Ascanio Celestini usa nomi veri di persone vere, storie vere ascoltate, raccolte o lette. Ma in queste storie coglie soprattutto il potere dell’immaginario e del desiderio. Per smontare il luogo comune secondo cui gli operai si erano estinti, spazzati via dal progresso come i pellerossa, non bastava il realismo, la documentazione, la conoscenza sociologica che dimostrava che (come peraltro i pellerossa) non sono estinti per niente. Se era stato facile credere che gli operai non esistessero più era soprattutto perché non riuscivamo più a immaginarceli. Così, Ascanio ha raccolto il loro stesso immaginario, lo ha intrecciato col suo, lo ha fatto crescere a dimensioni fantastiche e favolose, e ce lo ha raccontato di nuovo.
Tra quelli di cui parla Ascanio, sono esistiti, e portano nei nomi la storia del tempo in cui nacquero, anche Guerriero, che mi raccontò con dovizia di studi e di fonti la storia del suo paese; Trento (il più grande cantore di tradizione orale che ho mai incontrato), Vittoria, che si chiamava come mia madre perché erano nate tutte e due nello stesso anno. Si chiamano così perché quelli che sono raramente ricordati nei libri di storia e non hanno nome nei teleschermi, nella storia ci vogliono stare anche loro. E vogliono che la storia abbia un senso. E’ esistito anche Luigi Trastulli, alla cui storia devo tutto quello che ho capito sulla memoria e la storia orale. Lo ammazzò quasi per caso la celere in una manifestazione quasi di routine il 17 marzo 1949 (il giorno prima della data in cui il protagonista di Fabbrica viene assunto al lavoro); ma a Terni sono tanti quelli che convinti che sia morto nel 1953, al culmine dell’insurrezione cittadina contro i licenziamenti alle acciaierie – perché se la storia è assurda noi vogliamo attribuirle un senso con l’immaginazione e il desiderio, vogliamo attribuire un significato senso politico, rituale, sacrale anche a una morte avvenuta in circostanze inadeguate al suo dolore. Anche per questo, la voce che Ascanio inserisce in nello spettacolo esalta al di là della puntualità cronachistica l’intenzionalità di quella uccisione. Ed è anche per questo che la vicenda della morte del fascista Berta si gonfia, si espande, si diluisce e si esorcizza in una miriade di episodi affabulati e fantastici 9n cerca di un senso alternativo.
Ascoltando gli operai, insomma, Ascanio Celestini si rende conto che per far capire la fabbrica e la sua storia i fatti non bastano. La fabbrica è per prima cosa un luogo dell’immaginario, perché la sua realtà fattuale è quasi indicibile. Nessuno è in grado di veramente descrivere a parole il lavoro. In primo luogo, perché generazioni di operai non hanno imparato il mestiere a parole, dalle spiegazioni o dai manuali, ma guardando, “rubando con gli occhi”. E poi perché dentro il lavoro non ci sono solo i gesti tecnici del taylorismo e le specifiche tecniche della macchina: c’è l’identità, la vita, la soggettività anche di chi compie gesti ripetitivi che però nonostante tutto non sono mai tutti uguali, gesti alienati che per restare vivo deve investire di significato. Queste sono cose che non si capiscono se non si vivono, e non si credono se non si vedono. Un giovane operaio mi ha raccontato che adesso, col telefonino, manda le immagini della colata dell’acciaio agli amici che stanno di fuori, o ai compagni di altri reparti: non glielo può spiegare, glielo deve mostrare. E ogni volta che ho chiesto a un operaio – a un tornitore, a un fresatore - di spiegarmi in che consisteva esattamente il suo lavoro, le parole hanno lasciato il posto ai gesti.
E per questo fa bene Ascanio quando prende le parole con cui uno dei suoi personaggi cerca di descrivere la colata, e le scandisce come se fossero versi: perché in effetti di questo si tratta, se è vero che la poesia è la ricerca della parola adatta a dire quello che non si riesce a dire, e la pause, le esitazioni che servono a cercare le parole sono anche le scansioni ritmiche di un’esplorazione del linguaggio, una ricerca di immagini e di metafore. Diceva un operaio della ThyssenKrupp di Terni (così si chiama oggi la fabbrica dove lavorava Luigi Trastulli):

Se parte dal rottame e poi dal rottame vedi questi elettrodi che entrano dentro una paniera, una cesta e squamano… La colata è bellissima, il processo è fantastico, insomma ci stanno delle cose che so’ veramente secondo me belle anche da vede’. Ce sta la linea, il treno a caldo, da brama diventa rotolo, quindi questa lingua infuocata che ti arriva a una lunghezza de duecento metri, una lingua de fuoco che s’avvolge attorno a un aspo e diventa rotolo, cioè un processo che mette paura. La cosa mette impressione, poi piano piano uno che ce sta dentro t’abitui, ma uno che non c’è entrato mai…

“La fabbrica è enorme, e la sua ombra , per effetto del sole, si muove lentamente e compie una specie di mezzo giro”, racconta il personaggio di Ascanio; e poi, “La fabbrica è immensa. Io la guardo e mi pare che per lavorarci dentro bisogna essere immensi come la fabbrica. Mi dico: ‘l’operai che ci lavorano dentro saranno alti dieci metri! Saranno fatti tutti di ghisa e d’acciaio’’” Davanti all’enormità della fabbrica e alla grandiosità dei suoi processi, gli esseri umani che non sono fatti di ghisa e di acciaio e non sono alti dieci metri provano le stesse sensazioni di fascino e di terrore che i poeti romantici descrivevano nel rapporto degli esseri umani con l’immensità numinosa e sublime della natura.
Ma in questo che ho chiamato ”sublime operaio” entra un altro fattore. E’ vero, all’inizio, la fabbrica ti schiaccia. Mi raccontava Giovanni Pignalosa, operaio scampato al rogo della ThyssenKrupp di Torino: quando entri in fabbrica, “ti sei ritrovato in una realtà dove capisci che cosa vuol dire la vita di una formica, ti rendi conto di entrare a far parte di una realtà che capisci la formica come ce vede [a noi]. T’avvicini vicino a ‘st’impianti e te trovi questi impianti che rispetto a te sono come la formica ce vede a noi, cioè uno a dieci, uno a cento, uno a mille”. Ma poi questa sensazione si rovescia, e la fabbrica ti dà potere, perché sei tu che questi immensi macchinari, insieme agli altri, come parte di un processo sociale, li fai andare avanti: “E’ un mondo che ti dà una soddisfazione dentro di te che è un qualcosa fuori da ogni immaginazione, perché sei una persona modesta, umile, t’accontenti delle piccole soddisfazioni, [e] ti rendi conto che con quell’acciaieria, con quel padiglione di finitura, laminazione a freddo, fai girare ‘sto sfottuto paese, che fra l’altro sta in mano a gente che non sa che cazzo farne, non lo sa gestire, non lo sa portare avanti”.
Per cercare di capire, far capire e raccontare la fabbrica, dunque, ci vuole la poesia – e ci vuole il teatro. Come a teatro, ho detto, la descrizione del lavoro non si può fare solo con la voce; ci vuole il gesto simulato, ci vuole il corpo. Come il teatro, il lavoro è storia di corpi in movimento. Anche questo, Fabbrica lo mostra fin dalle prime battute. I corpi dei suoi personaggi sono corpi “disgraziati”, mutilati, lacerati, feriti; o corpi prodigiosi, favolosi, prodigiosi. Corpi accentuati, come sono accentuati i fatti nel’affabulazione immaginaria. Come nella gamba mancante dell’operaio che non si ricorda di non averla più, sono corpi suoi quali è scritta letteralmente la storia personale e la storia di tutti. Granny Hager, militante sindacale delle miniere americane, nel 1973:

E ho cicatrici su tutto il corpo, che ti posso far vedere. Sulle gambe e sulle braccia, dove i crumiri cercavano di spingerci via dal picchetto; e questo punto qui, forse non si vede più tanto bene, dove mi hanno tirato su la pelle – così – e uno mi teneva ferma la mano e l’altro mi ha tagliato via tutto un pezzo di pelle. E quest’altro punto, i dottori credevano che era cancro e invece è dove mi hanno messo un sigaro accesso sulla mano e ha bruciato finché è passato quasi dall’altra parte. A Harlan, negli anni ’30. E ho cicatrici sul corpo, dove prendevano i coltelli con la punta fina e li infilavano appena sotto la pelle dove fa più male e li giravano, in modo che si fa come un buco. Ecco quello che abbiamo passato, cercando di organizzarci, di fare qualcosa per la gente.

Granny Hager era vera. Forse saranno stati veri anche quelli che nono ho conosciuto, i Fausto e la prodigiosa Assunta dalle tre mammelle. Non l’ho conosciuto, ma era vero anche Baconin, che di cognome faceva Borzacchini e diventò un grande campione automobilistico e per questo si dovette cambiare il nome e chiamarsi Mario Umberto come la regina e il re. Magari lui sarà stato contento di liberarsi di questo nome pesante che non si era messo da solo. Ma annullare il nome è anche l’estrema offesa, perché dare al figlio un nome alto dieci metri, un nome sonoro e speciale che non si confonda con nessuno e che prefiguri un destino, è uno dei pochi modi con cui i nostri rossi aborigeni sentivano di poter lasciare un segno nella storia – come quando, sull’acciaio del prodotto finito davano una martellata (a mo’ di Michelangelo sul Mosè?) affinché l’invisibile ammaccatura funzionasse da firma, l’imperfezione da paradossale testimonianza del fatto che quella perfezione industriale era il prodotto di imperfetti esseri umani. Per questo sono contento di ritrovare quei nomi in questo racconto. E’ emozionante ritrovare in Fabbrica storie che anch’io ho ascoltato e raccontato – la squadraccia fascista di Pignattino, le sassate al re, lo sciopero per fare festa il giorno dei morti invece del giorno dei santi, l’operaio dimenticato morto il giorno del rapimento Moro…. – e di ritrovarle trasfigurate, intrecciate, smontate e rimontate dal genio narrativo, poetico e teatrale dell’inimitabile Ascanio Celestini. Che nel nome, anche lui, porta la memoria mitica delle origini della nostra città.