21 maggio 2009

Una risata ci seppellirà

ilmanifesto 9.5.09

L’ultima volta che sono stato in metropolitana a Milano i posti erano tutti occupati – anche non so da chi e se con adeguato diritto di sangue – per cui sono stato in piedi. Se non altro, tenendomi agli appositi sostegni, non ho dato occasione a nessun padano di prendersela anche per questo con Roma ladrona. Almeno su questo, ho la coscienza a posto, adesso che, nella seconda metropoli e “capitale morale” del paese, il capogruppo in consiglio comunale di un partito di governo – non il primo che passa, insomma, ma un’istituzione – se ne esce dicendo che bisogna riservare ai nativi un congruo numero di posti a sedere. E nessuno lo caccia fuori a calci.
La domanda politica principale in questi giorni è la seguente: “ci sono, o ci fanno?” Diceva Carlo Marx che la storia avviene in tragedia e si ripete in farsa. Se fosse così, non avrebbe senso disturbare il fantasma di Rosa Parks, la signora afroamericana che consapevolmente decise di sfidare le leggi razziali dell’Alabama rifiutando di cedere il posto a un bianco. E ancora meno ne avrebbe evocare la memoria delle leggi razziali come hanno fatto Franceschini e Amos Luzzatto. In fondo, diciamo, quella del dirigente leghista milanese è solo una delle solite boutade, lo sa anche lui che non è destinata a essere messa in pratica. Montgomery e la Risiera di San Saba sono un’altra cosa, non scherziamo.
Il problema però è che – come sapeva benissimo William Shakespeare che infatti le mischiava sapientemente – tragedia e farsa invece sono inseparabili e si specchiano fra loro. La tragedia può scadere in farsa, ma la farsa prepara la tragedia. E a forza di dire che le sparate dei leghisti, del loro leader Bossi e del loro guru Gentilini (e del loro compare Berlusconi) sono folklore, colore locale, spiritosaggini che non vanno prese sul serio (o addirittura: che costoro esprimono “il malessere del Nord” e dovremmo essere un po’ più come loro), intanto non ci accorgiamo che queste buffonate stanno diventando realtà in spazi assai più vasti e cruciali dei vagoni milanesi: è l’intera Italia che si trasforma in territorio segregato, con scuole e ospedali riservate agli indigeni, e galera per chi ne varca gli inviolabili confini. Le schifezze folkloristiche locali si allargano e diventano politiche governative nazionali: Gentilini propone di prendere a fucilate gli immigrati come leprotti a Treviso, e tutti ridono; il suo capopartito Calderoli propone di prendere a cannonate le barche dei migranti senza permesso nell’Adriatico, e ci cominciamo a preoccupare; il loro ministro Maroni lascia le barche alla deriva in mezzo al Mediterraneo, rispedisce i migranti al mittente e se ne vanta, e la gente comincia a morire. La farsa milanese si fa tragedia nei campi di concentramento dei migranti in Libia, nei suicidi nei centri di detenzione ed espulsione in Italia. Non “ci fanno”: ci sono, e fanno finta di non esserci.
Il nostro paese è dominato della terribile serietà del poco serio. Berlusconi che fa cucù alla Merkel, che vuole palpeggiare l’assessora trentina, che dice ai terremotati di considerarsi in campeggio, che racconta sadiche barzellette sui campi di sterminio e sui desaparecidos non fa ridere non solo perché non è spiritoso, ma soprattutto perché questi sono discorsi seri, in cui ridefinisce la correttezza politica nella nuova Italia: sono il linguaggio che dà forma alla pratica dei rapporti fra gli stati, fra i generi, fra le classi, fra la vita e la morte. E’ tutto uno scherzo, è tutta una farsa - che si porta via con un ghigno le cose poco serie come i soldi della ricostruzione in Abruzzo, le politiche per la crisi, i morti e i feriti sul lavoro, i posti di lavoro, i diritti e i salari, la dignità delle donne e dei migranti, la bambina ammazzata dai nostri ragazzi in Afghanistan, e altre pinzillacchere. Forse “ci fanno” e non “ci sono” solo perché in questa commedia sta tutto il loro esserci. Dicevamo “una risata vi seppellirà”. Bene, compagni, anche su questo avevamo torto. La risata sta seppellendo noi.

02 maggio 2009

Il 25 aprile e il Presidente Partigiano

il manifesto 23.4.09

Avevamo un Presidente Operaio. Il terremoto ci ha regalato un Presidente Odontotecnico che aggiusta le dentiere alle anziane signore. Adesso, grazie ai buoni uffici di Franceschini, abbiamo anche un Presidente Partigiano che si prepara ad andare a celebrare il 25 aprile
. Io non capisco che bisogno c’era di insistere per regalare a Berlusconi un’ennesimo palcoscenico. Berlusconi non viene il 25 aprile perché finalmente si è convinto che i partigiani avevano ragione, che la Costituzione non è bolscevica, e che la colpa delle Fosse Ardeatine è dei nazisti. No, viene il 25 aprile perché alla fine la bulimia prevale sull’ideologia: “non lo lascio alla sinistra,” ha detto. Come dire che non poteva sopportare che esistesse nella sfera pubblica uno spazio non occupato da lui e non definito dalla sua presenza. Il migliore omaggio che potesse rendere alla Resistenza , Berlusconi lo faceva standosene in famiglia il 25 aprile. Era un modo per dire che l’antifascismo è una differenza. Non esclude nessuno, ma ridefinisce chi include.
Ora, il 25 aprile che viene non ridefinisce Berlusconi, ma è Berlusconi che venendo ridefinisce il 25 aprile. Vi ricordate quando dicevamo, ingenui e settari, che “la Resistenza è rossa e non è democristiana”? Bene, il Presidente Partigiano ha già annunciato che verrà a spiegarci che non è né rossa (Deus avertat) ma non è nemmeno democristiana; verrà a spiegarci che i partigiani (quelli buoni) hanno combattutto affinché l’Italia fosse come l’ha fatta diventare lui. Abbiamo già visto episodi abbastanza grotteschi in proposito, come l’intervista in cui nientemeno che LaRussa, nostalgico di Salò, ci ha spiegato che la Resistenza va bene, ma quella dei comunisti no perché loro combattevano per lo stalinismo e non per la libertà. Che dobbiamo prendere lezioni di libertà da un simile figuro è segno di che disastri stanno succedendo al linguaggio, oltre che alle idee.
Ci fosse venuto di sua iniziativa, sarebbe un’altra cosa: sarebbe un segno di evoluzione, di riflessione, magari di ripensamento. Ma viene degnandosi di aderire all’insistente invito del “leader” dell’”opposizione”, e io non vedo che bisogno di fosse di insistere per offrire a Berlusconi un’ennesima piattaforma, un ennesimo spazio di esibizione. Capisco l’idea di recuperarlo a una cultura democratica che nasce dalla Resistenza; ma questo recupero dovrebbe avvenire, se mai, sui contenuti e sui valori, non sulle cerimonie. Se no, tanto vale offrirgli anche il palco del Primo Maggio a San Giovanni, magari con il fido Apicella, e poi fregarci le mani dicendo che l’abbiamo recuperato al movimento operaio. Che, peraltro, in quanto Presidente Operaio, era già cosa sua.