10 novembre 2010

Aldo Natoli, un comunista senza partito

il manifesto 10.11.2010 (ma pubblicato per la prima volta nel settembre 2003)

Nel 1987 facevamo un numero su Roma dei Giorni Cantati. Andai con Nicola Gallerano a parlare con Aldo Natoli, e la presenza di Nicola mi aiutò a superare la soggezione verso la persona che considero il mio esempio e riferimento morale e di stile prima che politico. Parlammo di quella Roma popolare che Natoli scopriva nel dopoguerra e che aiutava a cercare un riscatto. Erano racconti emozionanti perché erano detti con quel suo ritegno rigoroso che dà forma ai sentimenti meno facili e più profondi.
“Io sono un meteco a Roma, un siciliano che ho vissuto sin dalla mia prima giovinezza qui,” spiegava, “ma non posso dire di essermi mai profondamente acclimatato con gli umori popolari. In fondo, io prima di diventare comunista ero un giovane intellettuale aristocratico. O per lo meno pretendevo di esserlo. Questo nocciolo è rimasto abbastanza dentro di me. Ma stavo molto bene con loro; e in questo forse vi era il ricordo del modo come io mi ero proletarizzato, in un certo senso, quando stavo in galera. Però dal punto di vista culturale in fondo io ho mantenuto sempre questa ristrettezza - stavo per dire autonomia, ma preferisco dire ristrettezza aristocratica.”
Su questa coscienza della diversità si fonda una passione senza populismo: “Nell’attività politica che ho svolto prima di essere arrestato, cioè fra la fine del '35 e la fine del'39, non ho mai avuto un contatto con un operaio. Il partito ci indicava l'interdizione di avere contatti in ambiente operaio. Questo derivava [anche] dal fatto che l'ambiente operaio romano, di sinistra, comunista in particolare, era stato semidistrutto dalla repressione, e dall'infiltrazione, poliziesca. Quindi io non avevo mai conosciuto un operaio un contadino. La mia prima conoscenza avvenne in carcere. E rese più agevole dentro di me lo svilupparsi di alcuni processi di mitizzazione relativamente alla classe operaia e ai contadini. Cioè, quando io ricordo i rapporti che io ebbi in carcere, con operai e contadini, debbo resistere alla mitizzazione. Capisci?” C’è chi mitizza la classe in astratto, e poi si dice deluso; e chi costruisce proprio sulla conoscenza un “mito” che dura tutta la vita.
Riascoltando il nastro, mi accorgo che quello che avevo preso per un intercalare è la parola chiave: “capisci?” Non racconta avventure, non si intenerisce sul passato, ma ci aiuta a capire che cosa è Roma, che cosa siamo noi. I fornaciai di Valle Aurelia, le donne di Trastevere che andavano al Divino Amore ma erano furiose contro l’articolo 7, il Quarticciolo (“al Quarticciolo c'era il Gobbo, in quel tempo. Capisci? Quindi c'era un intreccio, fra le frange, la base del partito e non solo questa piccola delinquenza locale ma il clan del Gobbo. E il Gobbo per un certo periodo di tempo pretendeva di essere lui il comunista, lì”), Borgata Gordiani, Tormarancia – “Capisci, noi avevamo nei confronti delle borgate, del sottoproletariato delle borgate, una posizione che non aveva niente a che fare con il perbenismo. E in questo magma sottoproletario,con una percentuale altissima di immigrati del Sud - senza lavoro, gente che si arrangiava: non era ancora il tempo dei ragazzi di vita, questo è venuto più tardi - il partito aveva un enorme prestigio. Questi vedevano il partito come lo strumento della redenzione”.
Non si trattava solo di andarci, nelle borgate, ma di riportarle dentro Roma: “La lotta contro il patto Atlantico: come avremmo potuto fare quella lotta nel centro di Roma se non ci fosse stata la partecipazione delle borgate? Ma alla fine del'47, sulle questioni della disoccupazione, noi facemmo uno sciopero generale che durò due giorni. Con una azione, organizzata, formidabile - di interventi nel centro e nella periferia. E perfino con azioni gappistiche: nel senso per esempio di paralizzare i trasporti distruggendo gli scambi dei tram; oppure spargendo i chiodi a quattro punte. Ma, in certe borgate, organizzavamo gli scioperi a rovescio. Per esempio, costruivamo le strade.”
Al momento di congedarci racconta: "giorni fa mi ferma per strada un tranviere (l’amore di Natoli per Roma proletaria è sempre stato interamente ricambiato)e mi chiede: Natoli, che fai? E io: sono un comunista senza partito." E’ una cosa dolorosa per chi nel partito ha vissuto. Ma da quel giorno sono stato fiero di esserlo anch’io.

09 novembre 2010

Il Tea Party parla di noi

il manifesto 9.11.2010

Cominciamo con l’incipit di un testo sacro della tradizione progressista, democratica, anarchica, “Civil Disobedience” di Henry David Thoreau: “Di tutto cuore faccio mia l’affermazione: ‘Il migliore dei governi è quello che governa meno’, e vorrei vederla messa in pratica nel modo più rapido e sistematico”. Noi abbiamo sempre letto questo testo come manifesto utopia antiautoritaria, anarchica; ma un’altra tradizione legge invece queste parole come il proclama di un liberalismo estremo e di un antiautoritarismo e antistatualismo individualista di destra.No0n a caso, “libertario” è una parola di sinistra in Italia e di destra negli Stati Uniti. Dopo tutto, il gesto rivoluzionario di Thoreau – il rifiuto di pagare le tasse – risuona precisamente con gli argomenti di tutte le destre degli ultimi quarant’anni, compresa la retorica antistatuale del Tea Party.
Lo slogan della rivoluzione americana, quello per cui i rivoluzionari di Boston buttarono a mare le casse di tè inglese piuttosto che pagarci l’imposta, era “No taxation without rapresentation”: no semplicemente “niente tasse”, ma niente tasse senza rappresentanza (pochi ricordano, fra laltro, che i coloni americani pagavano allora meno tasse dei cittadini della madrepatria – ma questi ultimi erano rappresentati in parlamento, e loro no). Ora, fra degrado della politica e globalizzazione, quello che è andato in crisi è proprio la rappresentanza su cui si reggeva l’idea stessa di democrazia e la legittimazione della tassazione. Di qui la percezione (subita e alimentata anche dalla “sinistra”) che le tasse non vengano versate a un’istituzione che ci rappresenta per essere usate per il bene comune, ma che ci siano sottratte per essere sprecate o usate per fini che non conosciamo e non controlliamo, che dai soldi pagati non torni indietro niente. Forse la risposta di sinistra alla retorica antitasse della destra non dovrebbe essere di competere sullo stesso piano ma di provare a restituire ai cittadini la sensazione che lo stato siamo noi e non i “politicians” come li chiamano in America, o la “casta” come la chiamano qui.
Aggiungiamoci pure che da Thatcher e Reagan in poi l’idea che esista un “bene comune” non gode di grande popolarità. Non esiste la società, esistono gli individui, diceva Margaret Thatcher. E il gesto rivoluzionario di Thoreau è anche questo: la ribellione individuale, scaturita nell’esperienza solitaria della capanna nei boschi in cui sperimenta la possibilità di esistere fuori dello spazio socializzato della città – utopia ecologista per noi, ma metafora della frontiera se la guardiamo con altri occhi - di un singolo che contrappone la propria coscienza individuale alla legge di uno stato in cui non si riconosce e che non desidera.
C’è tutta la differenza del mondo, ovviamente, fra Thoreau che rifiuta di pagare le tasse perché non vuole prendere le armi e un Tea Party che rifiuta di pagarle perché ha paura che lo stato le armi gliele porti via. Ma anche al centro della rivolta di destra sta anche la preoccupazione che questo stato estraneo pretenda di interferire con la propria coscienza, con i propri valori morali e religiosi. E’ una preoccupazione che non appartiene solo alla destra. Martin Luther King e il movimento dei diritti civili contrapponevano alle leggi segregazioniste non solo i principi politici dell’eguaglianza fra i cittadini ma soprattutto quelli morali della “beloved community”, una comunità retta dal valore religioso della carità e dell’amore. Uno slogan del movimento delle donne negli Stati Uniti è “fuori lo stato dalle mie mutande”: lo stato si ferma al confine della nostra coscienza e del nostro corpo – sia per noi, sia per una destra che si mobilità attorno a suoi principi di religione, famiglia, comunità, sessualità.
Persino l’apparentemente inspiegabile ostilità alla riforma sanitaria ha a che fare con questo. Per noi, che consideriamo la salute un diritto, significa pretendere che lo stato usi i nostri soldi per darci i mezzi per vivere sani, per prevenire e curare le sofferenze del corpo e della psiche. Ma per una tradizione che limita la definizione dei diritti all’osso dei diritti formali dell’individuo, la riforma sanitaria può essere presentata come una pretesa dello stato di mettere le mani sui loro corpi e sulle loro coscienze.
Facciamo l’esempio più ridicolo ed estremo: la leggenda alimentata dal Tea Party secondo cui la riforma sanitaria prevedeva l’istituzione di “commissioni della morte”, che avrebbero deciso nel chiuso di segrete stanze governative quali anziani devono vivere e quali vanno soppressi (a proposito: la percentuale di votanti anziani è balzata dal 16% del 2008 al 23% nelle elezioni di medio termine del 2010). Non c’è dubbio che si tratta di paranoia.
Però. Sabato 6 novembre, in un programma televisivo di Rai 3, si dibatteva della possibilità tecnologica di deviare il corso degli uragani. A un certo punto, timidamente, il conduttore ha chiesto: chi decide dove mandarli? Massimo Cacciari, filosofo ed esponente della sinistra moderna, ha risposto: si può deviare un uragano in modo che non colpisca New Orleans e ammazzi migliaia di persone ma vada in una zona più spopolata e ne ammazzi dieci soltanto, ma è una cosa che non si può decidere in via democratica; lo può fare o un dittatore buono e santo, o una commissione di scienziati e di tecnici.. Cacciari parlava in modo sconsolato e ipotetico – ma l’atto di immaginare lucidamente un futuro in cui sia possibile una simile decisione autoritaria e\o burocratica su chi può vivere e chi può morire non appartiene forse allo stesso paradigma della leggenda delle “commissioni di morte”? E se fossi io, uno dei dieci campagnoli condannati a morte?
Paranoia, certo – ma diceva Delmore Schwartz che anche i paranoici hanno dei nemici veri, e l’idea che sulla nostra vita si esercita un potere che non controlliamo e non conosciamo non è monopolio di questa destra. A New Orleans, dopo Katrina, una quantità di afroamericani dei quartieri poveri era (e rimane) convinta che gli argini siano stati fatti saltare in modo da mandare la piena nei loro quartieri e salvare la New Orleans ricca e turistica. Sarà paranoia, ma gli afroamericani storicamente hanno avuto buone ragioni di pensare che lo stato non gli appartiene e che sarebbe davvero capace di fare una cosa del genere: nell’alluvione del 1927, quella di cui cantano infiniti blues, forse successe davvero; e dopo tutto, lo stato non mandava proprio i neri e i latini a farsi ammazzare in prima linea in Vietnam? chi decideva chi vive e chi muore? e chi decide chi decide? Se lo hanno fatto ai neri e ai portoricani, perché non potrebbero farlo agli hillbilly campagnoli che hanno votato per Rand Paul? Intanto, in queste elezioni i votanti afroamericani e latini sono diminuiti (a 13 a 10 e da 9 a 8 per cento) e sono aumentati quelli rurali.
Perciò, a suo modo, anche il Tea Party parla di noi. Nella pagina più efficace del suo The Audacity of Hope. Barack Obama scriveva che la ragione per cui la Costituzione americana ha funzionato è la sua origine in forma di negoziato, dialogo, compromesso; ma riconosceva che ci sono momenti in cui il senso delle cose lo esprimono invece gli idealisti e gli estremisti, come gli antischiavisti al tempo della guerra civile. E aggiungeva, nella sua incrollabile fiducia bipartitica, che questo vale anche per gli estremisti dell’altra parte, per cui bisogna stare comunque attenti a quello che dicono, non per farlo proprio ma per leggerne i segnali.
Se proviamo a leggere i segnali della nuova ondata di destra, non ci possiamo consolare con la constatazione che molti dei candidati più assurdi non sono stati eletti: le paure che hanno alimentato questo movimento (insieme con una quantità spropositata di soldi) sono condivise da una fascia ben più ampia di elettori repubblicani (e non solo). E nascono dalla radicalizzazione di domande che ci poniamo anche noi: che fare della rappresentanza, della democrazia, del rapporto fra cittadino e stato, fra legge e coscienza, nell’età della globalizzazione? Le risposte dei repubblicani americani sono retrograde, preoccupanti e controproducenti. Ma se noi non immaginiamo risposte diverse, se la sinistra non ritrova la sua missione di renderci protagonisti delle decisioni che ci riguardano tutti, finiremo per subire un futuro in cui al crollo e allo svuotamento della rappresentanza e della partecipazione, alla crescente separazione fra il potere e la maggioranza dell’umanità, si risponderà solo con la delega fideistica (al dittatore buono e santo o alla commissione di tecnici – Berlusconi e Bertolaso, o loro controfigure?) o con la rabbia paranoica, o con tutte e due le cose insieme.

06 novembre 2010

Via col vento: edili americani nella crisi

il manifesto 2.11.2010

Peachtree Street è la strada principale di Atlanta, Georgia. Ci ha abitato anche Rossella O’Hara; in Via col Vento la si intravede, in carrozza su una rustica via di rossa terra della Georgia. Oggi è un canyon di grattacieli di alberghi e uffici e non ci abita nessuno – metà della gente che vedi per strada porta le targhette col nome dei partecipanti ai vari congressi che popolano zona. Ogni tanto, incongruamente, passano carrozze a cavalli dalle forme fantasiose, e le famigliole che ci vedo sopra sono tutte di afroamericani, una specie di rivalsa dei discendenti di Mamie che tornano da turisti dove l’immaginazione nazionale li ricorda come schiavi e cocchieri. Peraltro, i cocchieri sono neri anche adesso.
Stamattina, 1 novembre, c’è animazione insolita all’angolo di Peachtree: una cinquantina di uomini e donne con giubbotti arancione e una selva da cartelli camminano in cerchio davanti a un grattacielo per uffici, come vuole la legge che impone ai picchetti di muoversi. Sono i membri della United Brotherhood of Carpenters, la “fratellanza” dei carpentieri edili (in edilizia vige l’arcaico sindacalismo di mestiere, per cui carpentieri, elettricisti, muratori, eccetera, sono tutti iscritti a sindacati separati e spesso in concorrenza fra loro. Dal 2002 la UBC non fa più parte delle confederazioni nazionali). Protestano contro la Ultra, un’azienda appaltatrice che come tante altre nella zona non applica le norme su salari, provvidenze e sicurezza. Gridano slogan antifonali da stadio, col nome del sindacato al posto della squadra. Un cartello invita gli automobilisti a suonare il clacson: “honk for workers’ rights”, suona per i diritti dei lavoratori. Tutti i camion e gli autobus rispondono, ma anche un paio di SUV.
Nel picchetto ruotano soprattutto neri e latini; i due sindacalisti che li affiancano. Gli chiedo di che si tratta e mandano a chiamare il responsabile. A farmi parlare direttamente con gli operai non ci pensano proprio. Comunque il dirigente - si chiama Jimmy Gibbs - è molto disponibile.
“Abbiamo una vertenza con la Ultra, un appaltatore qui nel palazzo. Non rispetta nessuno degli standard dei rapporti di lavoro – salario, orari, provvidenze, formazione, sicurezza. Pensa che il progetto a cui lavorano adesso si chiama ‘Credibility’ – paradossale, no? In tutti questi anni abbiamo visto erodere le condizioni di lavoro; abbiamo parlato con gli imprenditori e con gli enti pubblici responsabili; molti non ci hanno nemmeno ascoltato, altri non avevano la volontà politica, perciò abbiamo deciso di portare la vertenza fuori per informare la gente. Abbiamo fatto manifestazioni, cartelli, striscioni, volantinaggi, in tutta Atlanta. Abbiamo visto ogni genere di rappresaglia e intimidazione: gli appaltatori minacciano gli operai non farli parlare con noi. La Ultra, poi, usa un labor broker, un subappaltatore di forza lavoro: vanno a prendere gli operai in Messico o in America Centrale, li pagano in nero, niente versamenti, fanno pagare a loro la previdenza antinfortunistica, perciò se hanno un incidente, e succede spesso, non hanno nessun o risarcimento C’è stato che si è fatto male e si è trovato senza lavoro, non gli hanno neanche pagato l’ultima busta paga perché erano senza contratto… Purtroppo il nostro paese sta attraversando una transizione in cui i lavoratori immigrati sono sfruttati. Molti vengono qui senza conoscere le leggi, i minimi salariali, i diritti che gli spettano. E sono disposti a lavorare per meno: vengono da economie di povertà, e la paga è comunque più di quello che guadagnano a casa – anche se poi il costo della vita qui è più alto, un dollaro qui non va tanto lontano come in Messico. Noi non cerchiamo di reclutarli ma vogliamo che siano informati. Non crediamo a nessuna discriminazione. Se io vivessi in Messico o in America Centrale e avessi una famiglia da mantenere, farei come loro: se ci sono imprenditori qui negli Stati Uniti che offrono lavoro a condizioni sotto la norma di legge ma comunque migliori che in patria, vengo qui. Noi diciamo solo che anche per gli immigrati dovrebbero valere le stesse regole che valgono per tutti.”
Più che che ai diritti degli immigrati in quanto persone, comunque, il sindacato sembra pensare allo sfruttamento dell’immigrazione come a una distorsione del mercato. E’ una delle funzioni tradizionali del sindacato, fin dal New Deal di Roosevelt: garantire parità di condizioni per le aziende, la regolarità della concorrenza e del mercato, prima ancora che sopravvivenza per le persone. “Lo sfruttamento di questa gente crea una concorrenza sleale verso le aziende in regola. La vertenza è proprio su questo: bisogna che le condizioni siano uguali per tutti. Ci sono anche aziende che ci appoggiano, che dicono ai repubblicani e ai democratici: guardate, che questa situazione ci manda tutti al fallimento, perché quando andiamo a trattare gli appalti ci troviamo contro aziende che non pagano le tasse, i salari, la sicurezza, e noi non ce la facciamo a competere. I repubblicani dicono che sono contro l’immigrazione illegale ma non dicono niente contro gli imprenditori che ne approfittano per sfruttare gli immigrati. Non puoi essere contro l’immigrazione e poi permettere che gli immigrati siano sfruttati, perché è questo che li porta qui”: paradossalmente, proteggere i diritti degli immigrati diventa un modo per scoraggiare l’immigrazione. Ma non è un paradosso solo americano.
E’ la vigilia delle elezioni, non posso evitare di chiedergli che pensa. “Purtroppo la Georgia è uno stato fortemente repubblicano, uno stato rosso, e operiamo in condizioni molto difficili, anche se Atlanta è più articolata e abbiamo parecchio sostegno. Naturalmente qui al Sud, in Georgia, abbiamo tutti un modo nostro di vedere le cose. Sai bene che il Sud, la Georgia, storicamente non ha molto sostenuto gli afroamericani. Con il primo presidente afroamericano, le tensioni razziali in gioco si vedono chiaramente. Risale tutto alla storia di qui, purtroppo ci vorrà almeno un’altra generazione prima che alcune di queste ferite siano sanate”. Quanto all’economia, “lo stimolo è andato tutto ai banchieri, all’un per cento più ricco e quasi niente è ‘sgocciolato’, come si diceva un tempo, fino in basso, a chi ne ha davvero bisogno. Vediamo gente istruita, con la laurea, coi dottorati, che è senza lavoro, perché le cose vanno male per tutti. E a stare senza lavoro si soffre”.
Un punto qualificante della piattaforma di Obama era l’impegno a varare lo Employee Free Choice Act, che permetterebbe ai lavoratori di iscriversi e chiedere la rappresentanza e il contratto sindacale senza passare per un referendum aziendale in cui sono soggetti a ricatti e pressioni di ogni tipo (quando si parla della scarsa rappresentatività dei sindacati in America, va ricordato che iscriversi è difficile e spesso pericoloso, e i contratti nazionali non esistono: la maggior parte del lavoro negli Stati Uniti è quello che noi chiameremmo lavoro nero). Ma finora, Obama non ha mantenuto la promessa.
“Be’, quando le camere di commercio spendono milioni di dollari per bloccare una cosa… si è impantanato. Ma che c’è di male a dare a chi lavora il diritto di prendere la tessera se vuole, senza bisogno di passare per tutta la trafila, di lasciare che siano loro e non l’azienda a decidere il proprio futuro e chi li rappresenta? Non conosco nessuno che vuole mandare in fallimento l’azienda dove lavora, ma vogliono lo stesso sedersi al tavolo delle trattative e negoziare un contratto. Se apri un conto in banca o fai un mutuo, firmi un contratto; non capisco perché chi lavora non deve avere un pezzo di carta, un accordo firmato, che gli garantisca il futuro. Dipingono i sindacati some teppisti, come la rovina dell’America, ma abbiamo visto alla Ford e alla Chrysler che il sindacato è disponibile a ragionare per rendere le aziende competitive.”
A questo punto, smettiamo di capirci. Gli dico che le concessioni alla Chrysler stanno diventando un modello che smantella i diritti e i posti di lavoro alla Fiat in Italia, ma questo genere di solidarietà internazionale non fa parte della percezione di tanti sindacalisti americani. Anzi: “Vedi? I repubblicani dicono sempre che il sindacato fa perdere i posti di lavoro, ed ecco un esempio di come grazie al sindacato i posti ritornano in America”. Passa un tir suonando a distesa per solidarietà. “Nella società globalizzata”, conclude Gibbs, “gli investimenti vanno dove il lavoro costa meno”. E adesso costa meno negli Stati Uniti: forse questa è una delle ragioni profonde, neanche articolate o capite, della rabbia informe e mal diretta di tanti americani che vedono svanire certezze ancestrali, si sentono messi a casa loro sullo stesso piano del terzo mondo e costretti a competere al ribasso. Lo slogan del Tea Party è “riprendiamoci l’America”. Ma quell’America lì è andata via col vento della crisi e non tornerà più.