03 febbraio 2011

Ivan Della Mea, milanese

il manifesto, 3.2.2011

Raccontano che Stendhal volesse per sé un semplice epitaffio: “Henri Beyle, milanese”. Ivan Della Mea era milanese come Stendhal: non per nascita, ma per sentimento, per cuore: dopo tutto, in tempi altri da questi, si diceva che Milano facesse rima con “cuore in mano”, e la Milano di Ivan Della Mea era condensata in quel Circolo Arci Corvetto “cheincuormistà”, scriveva lui, anche dopo che fra i soci cominciavano a circolare idee che non condivideva – ma il cuore è un’altra cosa. Milano di Ivan Della Ma era quella marginale, segreta, notturna di tante delle sue canzoni più indimenticabili – i prati di “El me gatt”, le strade notturne di “A quel omm”, i muri con le scritte comuniste di “Quand riva ‘l cald”, la piazza della “Ballata per l’Ardizzone”, le case tumultuose di “Ringhiera”… Attorno a Ivan Della Mea, milanese “cheincuorcistà”, i suoi amici di sono incontrati per raccontarlo e per pubblicare un suo testo inedito che parla di amicizia, di ricerca, di desiderio e di immaginazione – un testo che ha per titolo, come a Ivan si addice, una domanda: “Icché”.
Ne è uscito un libro a molte voci – Ivan Della Mea, Un inedito e testimonianze (Jaca Book, 189 pagine, E. 18) - che cerca di restituire la molteplice identità in perenne trasformazione e ricerca di un personaggio fuori dagli schemi. Gianni Mura ne racconta la figura di “giornalista di strada”, “auscultatore di Milano” e per questo capace di trasformare le storie più di routine in racconti carichi di significato: “Il cittadino cronista Ivan Della Mea è sempre stato da una parte sola senza mai abbassare la voce, la chitarra, gli occhi, la penna, la schiena e la bandiera”. Uliano Lucas ricostruisce i lineamenti di Ivan attraverso quelli fotografati della sua Milano – palazzoni fra i prati, gente che corre dietro a un tram nella nebbia, e forse la più bella, semplicemente facce serie, intente (chissà, forse un’assemblea operaia). Annamaria Rivera si interroga su quella sua capacità di costruire saperi attraverso la coscienza del non sapere, autodidatta indagatore e coltissimo, sempre coerente proprio per la dinamica incessante delle sue contraddizioni (viene da dire: “lavoratore della conoscenza”, nella pienezza di entrambe le parole, lavoratore e conoscenza, tutte e due legate a un fare, diventare, trasformare, mai a uno statico essere). Franco Tagliaferro ne studia lo stile narrativo (è ora che qualcuno cominci a prendere sul serio Ivan Della Mea anche come scrittore), stravagante e creativo, fra l’affabulazione orale e il postmoderno gioco sulla linea dei significanti (a Tagliaferro viene in mente il divagare fecondo di Sterne). Pier Paolo Poggio ci aiuta a capire che l’umanità della sua Milano era anche dovuta alla capacità di viverla con gli strumenti e la memoria del mondo contadino che Ivan non aveva mai dimenticato, e da cui la città negli anni delle grandi migrazioni, non era poi così nettamente separata. Antonio Fanelli, Stefano Arrighetti, Cesare Bermani ricordano il suo complicato rapporto con l’Istituto Ernesto De Martino, quella matrice di memoria, di produzione, di organizzazione culturale a cui è rimasto tempestosamente legato per mezzo secolo, dal suo incontro con Gianni Bosio agli ultimi anni in cui si è sacrificato per tenerla in vita facendo un mestiere di organizzatore e amministratore che non era il suo ma che solo lui poteva fare.
“L’insieme degli interventi”, scrivono i curatori nella nota introduttiva, “ cerca di coprire l’intero campo delle attività di Ivan Della Mea, che non può essere incluso in nessuna delle categorie utilizzate abitualmente per classificare gli intellettuali” (e già, direbbe lui: “dare etichette è sempre da coglioni”): “Egli è stato autore e interprete della canzone popolare italiana, poeta e romanziere, pubblicista, nel senso che si dava a questo termine nella Russia dell’Ottocento, cioè scrittore che si occupa dei più importanti problemi sociali, politici e morali del suo tempo, ma anche organizzatore culturale e militante comunista”. Alla fine, come nella storia dei ciechi che cercano di descrivere l’elefante affidandosi al tatto, si ha la sensazione che più guardiamo le singole parti della vita, dell’opera, del carattere di Ivan Della Mea, più l’insieme ci sfugga – perché è più grande della somma delle parti, perché le tiene insieme in modi misteriosi e improbabili, e forse perché non c’è e continua a cercarsi: “il deserto era in me e aveva senso in sé …/… il deserto dell’io / l’io deserto / l’io / io”.