23 novembre 2012

La politica identitaria degli ultras da stadio

il manifesto 23.11.2012 L’aggressione di massa ai tifosi inglesi in un pub romano è una spedizione punitiva premeditata e organizzata, quindi un gesto politico. Il problema è: di che politica si tratta? Molti anni fa, dopo una rissa fra tifosi laziali e livornesi, andammo con Sandro Curzi, Silvio Di Francia e altri a cercare di convincere il patron della Lazio, Claudio Lotito, a prendere posizione contro il fascismo che dilaga nelle curve (non solo) laziali. Non capì nemmeno di che parlavamo; noi parlavamo di rifiuto del fascismo, lui continuava a insistere, come tutte le autorità calcistiche e istituzionali, che “la politica” nello stadio non ci doveva entrare. E invece proprio l’assenza della “politica” lascia il campo a pratiche che esprimono allo stato puro la forma dominante della politica in questi tempi di eclissi della politica: la politica dell’identità. Più la politica “vera” si svuota di contenuti, fra pensiero unico, leaderismi, primarie ad personam, delega dei governabili ai governanti, più quello che conta è solo lo schieramento, l’appartenenza. E allora: quando l’Osservatorio del Viminale ripete il luogo comune secondo cui questi episodi “non hanno niente a che vedere con lo sport” dovremo pure chiederci con che cosa c’entrano, e come mai si addensano comunque attorno agli stadi. Allo stadio si canta: “noi siamo i bianco-blu, la Lazio amiamo, la Roma odiamo”: ma se uno gli domanda perché, non te lo sanno dire perché non c’è nessun perché, emozioni senza contenuti. Infatti il tifo ha lo stesso statuto linguistico dei nomi propri: significa solo se stesso. Come “Giuseppe” significa solo “una persona che si chiama Giuseppe”, così “tifoso laziale” (o “juventino”) significa solo una persona che fa il tifo per la Lazio (o per la Juventus). Non c’è nessuna ragione per fare il tifo per una squadra o per un’altra: è il grado zero dell’ appartenza spesso casuale e intercambiabile (e quando qualche ragione c’è, è identitaria anch’essa. tifi Fiorentina perché sei di Firenze, tifi Lazio – come me – perché mio padre ci giocava: identità al quadrato). Non sono più le antiche scazzottate fra il romanista e il laziale al derby per un rigore o un fuorigioco, ma semplice aggressione dell’altro perché non è “noi”. Che poi la politica dell’aggressione identitaria sia più consona alla destra che alla democrazia è solo un corollario di questo stato di cose (guarda caso, il Tottenham è vicino al mondo ebraico): come scriveva qualche giorno fa Marco Lodoli, la forza bruta e l’aggressione a priori diventano il modo primario di affermare la propria esistenza, una forma di comunicazione sempre più diffusa in tutti i rapporti interpersonali. Lo stadio, insomma, parla di tutti. Infine. Il commento più frequente sulla radio laziali è: non ci crediamo, non possiamo essere stati noi. Ora, l’incredulità è il primo stadio della reazione a un trauma, come quando uno viene a sapere di avere una malattia gravissima (e non riguarda solo i tifosi di calcio: vi ricordate quando cantavamo “Impossibile, un compagno non può averlo fatto”, e invece i “compagni” lo facevano eccome). Certo, non sono violenti e fascisti solo i tifosi laziali, è una malattia ormai generalizzata, tanto che pare che i primi arrestati siano ultra romanisti (in questo caso, non sarebbe la prima azione combinata dei fascisti di entrambe le parti, come è già successo in passato attorno all’Olimpico e a Brescia). Però alla Lazio abbiamo una storia lunga di razzismo e fascismo che non possiamo diluire in un così fan tutti che azzera ogni cosa. Solo quando si prende atto che la malattia esiste si può cominciare la cura. Invece di esorcizzarla, direi ai quei tifosi increduli e alla società che li rappresenta, guardiamoci dentro; magari daremo una mano anche a tutti gli altri infettati.

Ad Affile, fiaccole contro il monumento a Graziani

il manifesto 13.11.2012 La strade del borgo di Affile sono strette, perciò la silenziosa fiaccolata sembra forse più lunga di quello che è veramente. Ma siamo qualche centinaio, saliti fin quassù per dire il nostro dissenso all’esecrabile mausoleo in onore del massacratore Rodolfo Graziani eretto per volontà dell’amministrazione locale, col consenso di tutte le istituzioni regionali, statali e religiose, e col silenzio annoiato dei media e del governo; e per esprimere col nostro silenzio il rispetto e l’omaggio per le vittime del colonialismo italiano e del fascismo repubblichino. Dai lati della strada, sugli angoli in salita delle traverse o dai balconi, ci guardano sfilare, silenziosi anche loro. Una signora anziana da un balcone mi chiede che cos’è questo corteo, glielo dico, lei fa un gesto come per dire che non gliene importa niente. In mezzo a noi ci sono quattro carabinieri; facendo finta di credere che sono lì per manifestare anche loro gli dico, “Sono contento che ci siate anche voi. Graziani e i suoi complici hanno fatto deportare settecento carabinieri e non si sa quanti ne sono tornati vivi”. Prendono atto senza scomporsi. Altri mi diranno più tardi che qualcuno, anche persone anziane, ha espresso consenso e ringraziamento. Verso la fine, in piazza, quando il silenzio finisce canto di Bella Ciao, un ragazzino dietro le spalle di altri al margine della piazza, soffia dentro un fischietto. Ma per il resto, lontananza e sguardi muti. Molti di noi vengono da fuori: c’è un pullman dell’ANPI provinciale e ci sono tutte le sezioni ANPI dei paesi vicini; c’è il Circolo Gianni Bosio, un gruppo di compagni di Rifondazione, persino una piccola rappresentanza della Lega di Cultura di Piadena (dove sono riusciti a far ricoprire un fascio littorio misteriosamente spuntato e accuratamente restaurato sulla facciata del comune di Voltido); c’è un gruppo di ragazzi e ragazze africane, il deputato PD Jean-Léonard Touadi (autore di un’interrogazione parlamentare a cui nessuno risponde), la scrittrice afro-italiana Igiaba Scego. Più tardi, nell’assemblea che chiude la giornata, il rappresentante del comitato antifascista di Affile dirà che siamo ancora troppo pochi, e che è un peccato che siamo quasi tutti venuti da fuori, e delle voci si alzano orgogliose: noi siamo di Affile, e siamo qui. Ed è molto bello importante che il comitato antifascista di Affile sia composto soprattutto di ragazzi giovani: segno che l’antifascismo non è un rottame ideologico di epoche passate, e che forse la tradizione fascista di questi luoghi comincia a sfrangiarsi col passare delle generazioni. Ma certo ci vuole coraggio per dirsi e farsi vedere antifascisti in questi posti dove la cultura nostalgica ha radici solide coltivate anche dal potere democristiano (chi non ricorda il miserabile abbraccio di Giulio Andreotti al criminale di guerra Graziani, proprio qui vicino, sui piani di Arcinazzo?) e perpetuate nel fascismo dichiarato dei ras bel basso Lazio, da Ciarrapico nella vicina Fiuggi all’ineffabile Fiorito di Anagni (e a Bellegra, poco lontano, ha appena aperto un circolo di Forza Nuova). Perciò mi pare importante che siamo usciti da Roma: è stata anche l’idea che nel Lazio sia solo Roma a contare che ha favorito le sconfitte maturate nelle regionali scorse e anche in passato. Alla sala dove si svolge l’assemblea si scende per gradini tappezzati di manifesti che gridano, “Non in mio nome”. Alle pareti, una dettagliata mostra sui criminali di guerra italiani. Sara Modigliani apre l’assemblea guidando il canto di “Oltre il ponte” di Italo Calvino e Sergio Liberovici, la canzone che trasmette la memoria della resistenza alle ragazze e ai ragazzi che allora non c’erano. Lo storico Alessandro Volterra illustra con dovizia di documenti originali i crimini di Graziani in Libia e anche la sua inadeguatezza militare (alla faccia del “soldato Graziani” di cui favoleggiano i promotori del mausoleo). Igiaba Scego ricorda che quello che è successo ad Affile fa parte di un clima che comprende la strage dei senegalesi di Firenze, le continue violenze e le discriminazioni razziali contro gli immigrati (è di ieri l’irruzione di Forza Nuova in un teatro di Pontedera dove si festeggiava il riconoscimento della cittadinanza italiana a un gruppo di immigrati – in sinista continuità coi raid fascisti recenti nelle scuole romane), ma anche la quotidiana strage di genere che ha preso il sinistro nome di “femminicidio”. Perciò ha ragione Francesco Polcaro, presidente dell’ANPI provinciale romana, quando dice che i ragazzi antifascisti di Affile hanno reso un grandissimo servizio non solo al loro paese, ma all’Italia tutta che di persone come loro ha un gran bisogno in questi tempi cupi. Alla fine, una proposta di un intervenuto sembra interpretare il consenso di tutti: rovesciamo il clima di Affile, facciamone un polo di cultura democratica, chiamiamo qui Marco Paolini e Ascanio Celestini, Giovanna Marini, i Tetes de Bois, i suonatori del Circolo Bosio… Facciamo vedere, dice Ernesto Nassi dell’ANPI romana, a questi cultori dei sacrari, dei mausolei, della ricerca della buona morte, che gli antifascisti sono gente tosta, sì, ma anche gente felice di vivere.

22 novembre 2012

Musica e movimento negli Stati Uniti - una lezione finale

Annalucia Accardo mi ha chiesto di fare questa lezione e capita che sia l’ultima volta che faccio ufficialmente lezione all’università. E’ una felice coincidenza anche perché l’argomento della lezione è lo stesso con cui ho cominciato: musica e movimenti negli anni ‘60. Perciò ve lo racconterò come una testimonianza, una storia personale di formazione in cui queste canzoni sono state cruciali, perché senza queste canzoni sarei una persona diversa, non avrei fatto questo mestiere. Avevo 16-17 anni, non avevo alcuna idea politica in testa eccetto che la politica era una cosa sporca, che erano tutti uguali, eccetera. E al telegiornale vedevi cose come quei nove bambini neri dell’Arkansas che passano in fila tra sputi, sassate, bastonate, per entrare a scuola e rivendicare il diritto a un’istruzione comune a tutti. Questa scena, per un ragazzino di sedici anni di allora è un’illuminazione: ‘Ma allora la politica è questo, la politica è un luogo nel quale le persone si muovono per dei valori, per dei principi, per l’uguaglianza…’ Il movimento per i diritti civili afroamericano ha avuto un impatto del genere su tutto il mondo - la rivelazione di tutta un’altra dimensione, dell’azione collettiva, della pratica solidale, della morale nella politica, dei diritti di tutti. Io già bazzicavo la musica americana, il rock and roll e il resto, in cui mi riconoscevo come generazione. Così un elemento di fascino ulteriore fu che questo movimento dei diritti civili si esprimeva in primo luogo attraverso la musica. Ascoltiamola: una registrazione fatta in una manifestazione di massa in Mississippi, nel 1953: libertà, libertà su di me; e prima di essere schiavo sarò sepolto nella tomba, andrò a casa dal mio Signore e sarò libero. E’ uno spiritual che risale almeno dalla Guerra Civile, attorno al 1860. Come in tantissimi spiritual c’è l’espressione di un desiderio di libertà, che non si può esprimere se non in immagini bibliche: dentro il canto religioso c’è un’idea di liberazione che può essere mondana o ultramondana ma comunque un’idea di liberazione.. Il movimento si esprime grazie a una grande cultura musicale. Da un lato, le radici africane, con un rapporto molto stretto tra ritualità, musica e danza, che viaggiano persino nelle navi degli schiavi, perché sono un linguaggio del corpo e i linguaggi del corpo sono gli ultimi a venire cancellati. Dall’altro, in tutti gli Stati Uniti, fin dal ‘700 i culti metodisti, battisti, evangelici, sono fondati sulla musica collettiva - sia per l’influenza afroamericana, sia perché il forma di comunicazione col divino e uno strumento di coesione della comunità. Pensate alla scena di Moby Dick in cui Father Mapple, predicatore, inizia un canto e le persone sparse si raccolgono e diventano congregazione, comunità. L’altra cosa importante di questo brano è la forma: una strofa che si ripete sempre uguale, cambiando solo una parola all’inizio. Quindi tu poi anche non avere mai sentito questa canzone però dopo trenta secondi sei non solo in grado di cantarla, ma anche di reinventarla, perché immetti dentro il canto le tue istanze del momento. E’ uno strumento flessibile che ti permette di combinare memoria di cent’anni e più di storia con il presente, con la lotta in corso; e di improvvisare collettivamente, combinando comunità ed espressione individuale, perché si canta tutti insieme ma ciascuno si può inventare un sua strofa e condividerla con gli altri. […] Nel 1981, mi trovo in un posto che si chiama Highlander, una scuola di base fondata negli anni ’30 da giovani studenti di teologia, in mezzo delle montagne del Sud più reazionario per formare i quadri del sindacato, e poi negli anni ’50 quelli del movimento per i diritti civili. Sto salutando il direttore, entra una segretaria e gli dice “c’è Rosa Parks al telefono”. Se mi avessero detto che aveva telefonato Karl Marx mi sarei emozionato di meno. Perché Rosa Parks ci è stata raccontata come una vecchietta con i piedi gonfi, stanca, che non ce la fa ad alzarsi e a cedere il posto a un bianco sull’autobus a Montgomery, Alabama – l’episodio da cui si fa partire tutta la vicenda del movimento. Mi bastò sentire che era in contatto con Highlander per capire una dimensione del movimento che nessuno ci raccontava. Prima di quell’episodio Rosa Parks aveva fatto un seminario di formazione proprio a Highlander: la sua era un’azione politica, consapevole, programmata e organizzata. Infatti a Montgomery c’era tutta una rete che non aspettava altro, era già pronta, e in pochi giorni organizza un boicottaggio di massa. Quindi non era una cosa nata sull’onda dell’emozione, ma da una intelligenza politica – cosa che raramente attribuiamo ai cosiddetti subalterni, ai quali si suole riconoscere magari sentimenti e virtù, ma mai l’intelligenza. E’ a Highlander che cambia l’uso della musica. Un musicista di nome Guy Carawan convince il movimento che questa forma musicale, di cui i giovani si vergognavano perché la identificavano con la memoria umiliante della schiavitù, è invece uno strumento di comunicazione di mobilitazione fondamentale. E la canzone che gli insegna è uno spiritual, che avevano sentito cantare anni prima dai braccianti del North Carolina in sciopero, e a cui adesso cambiano solo una parola: da “I’ll Overcome” diventa “We Shall Overcome”. […] Il movimento per i diritti civili cambia l’aria che si respira in America, e ha un impatto fortissimo su tutta una generazione – che è poi quella del ‘68, che comincia con la lotta per il diritto di parola all’università di Berkeley nel ‘64, condotta in gran parte da ragazzi che tornavano dall’aver partecipato alla “Freedom Summer” per i diritti civili in Mississippi. Gli studenti bianchi tornano alle loro università e scatenano una lotta che segna la rottura tra una generazione di ragazzi, magari privilegiati, ma che non si riconoscono più nell’insegnamento che li porta verso la carriera, il successo, i soldi, la competizione. Da lì partono i nuovi movimenti contro le guerre e gli interventi militari, da Santo Domingo al Vietnam. La voce in cui si riconosce tutta una generazione è quella di Bob Dylan. Lui poi si sottrarrà per tutta la vita dal peso di essere la voce di questi movimenti, ma in questa fase, tra il 1962 e il 1964, lo è davvero. E la canzone fondamentale degli anni ’60 è sua: “The Times they are a-Changin’”. E’ difficile immaginare il senso di eccitazione e di ebbrezza che ti dava una canzone come questa: sentivi davvero che “i tempi stanno cambiando” e che eri tu che cambiavi coi tempi e cambiavi i tempi. Questo erano gli anni ’60, la sensazione fortissima che si apriva una nuova strada, e che – come dice la canzone – politici, famiglie, intellettuali, istituzioni o si levavano di mezzo o ti davano una mano; o nuotavano con te o affondavano. Risentendola adesso, però, mi colpisce il verso che dice “the present now will soon be past”. Nel’63 lui ew noi diciamo: “voi siete il presente, tra un po’ sarete il passato”. Ma nel 2012, il passato siamo noi che eravamo il presente di allora, è lui che è sempre bravissimo ma non è più la voce dei tempi. Mi fa pensare al discorso che circola da noi, i giovani contro i vecchi, le rottamazioni – fra dieci o vent’anni anni questi giovani saranno vecchi, è la fallacia di ogni movimento su pura base generazionale. Dicevamo, “non vi fidate di nessuno che ha più di trent’anni”, e il giorno in cui compì trent’anni Bob Dylan fu un trauma per tutta una generazione, che non si poteva fidare più nemmeno di lui, e di se stessa. Però in quel momento una canzone come questa ci diceva una cosa che è molto più difficile dire oggi: e cioè che c’era un futuro, che c’era una strada, e che eravamo noi a crearli. […] Abbiamo ascoltato le canzoni del Black Power (“Oginga Odinga” dei Freedom Singers), quelle di Pete Seeger e Phil Ochs contro la guerra, quelle dei soldati che rifiutano di andare in Vietnam, quelle delle lotte proletarie (i corridos dei braccianti messicani in California). Alla fine, come scrive nel suo ultimo libro Bruno Cartosio, tutti questi movimenti scompaiono vanno in crisi, eccetera, e quello che tira le fila di tutto e che sopravvive e cambia tutto è il movimento delle donne. Nel 1969 viene a Roma Barbara Dane, grande cantante di blues e di canzoni di lotta, e organizzo un incontro con il collettivo del Manifesto. Barbara canta un po’ di canzoni delle lotte in corso, e poi le chiedono:‘Che cosa succede adesso di importante in America?’ Li risponde: ‘La cosa più importante è il movimento delle donne’. Avreste dovuto vedere la faccia dei presenti, che non solo non ci avevano mai pensato ma che da questo movimento si vedevano mettere in crisi i paradigmi di una lettura un po’ dogmatica della storia attraverso la sola categoria del conflitto di classe. La novità con la quale si chiude questa stagione e se ne apre un’altra è questa scoperta, che il pianeta è limitato e che l’aria a un certo punto finisce, e che oltre i rapporti di razza, di classe, eccetera, al centro di tutto stanno i rapporti di genere. L’ultima cosa che ascoltiamo l’ho sentita per la prima volta proprio a casa di Barbara Dane. Un giorno arriva una sua amica, una giovane musicista che si chiama Beverly Grant, per farle sentire un po’ di sue canzoni nuove. Con mio grande entusiasmo – per un intellettuale non c’è gioia più grande di scoprire una cosa alla quale non avevi pensato prima - scoprii l’importanza, la forza, l’intelligenza, l’eloquenza, di questa nuova realtà delle donne. Non mi dimenticherò mai che lei aveva una bambinetta di due anni, totalmente autonoma che si gestiva il biberon… Questa sua canzone è la storia di come una donna trova se stessa liberandosi di una subalternità instillata fin dalla nascita. Finisce dicendo “Mi chiamo Janie e sono io – non Janie di papà, non Janie di mio marito, ma Janie di Janie”. Come dire: “io sono mia”. […] Infine. Queste musiche ci dicono, su uno dei momenti più straordinari del ‘900, più di tutti i romanzi scritti in quegli anni e di tutti i film fatti dopo. Riconoscere l’intelligenza e la passione di questi movimenti passa per l’ascolto di voci non autorizzate, antagoniste, marginali che proprio perché non autorizzate sono portatrici di una spinta liberatoria che sta già nell’atto stesso di prendere la parola. Per capire un tempo, per capire anche noi stessi in rapporto a quel tempo, ascoltiamo voci non autorizzate, ascoltiamo chi erano questi militari che cantavano andando a protestare contro la guerra, ascoltiamo questi musicisti messi sulla lista nera e fuori mercato, questi afroamericani che cantavano rischiando la vita a Birmingham o Selma. Noi in questa facoltà, che siamo tecnici della parola, dobbiamo tenerci molto stretta questa competenza, questo privilegio, questo diritto, perché non solo abbiamo la parola ma siamo destinati ad aprire spazi di parola agli altri. Se uno fa il mediatore culturale, questo fa: apre spazi di parola e di ascolto, e allora ecco che la musica, i racconti, le storie, arrivano, e non li ferma più nessuno.