17 luglio 2013

L'assassinio di Trayvor Martin - il manifesto 16.7.2013

Nella luce incerta di quella sera in Florida, il vigilante George Zimmerman non ha visto una persona, un ragazzo di nome Trayvor Martin – ha visto qualcosa che il nostro vicepresidente del Senato chiamerebbe “un orango”. E naturalmente ha avuto paura, e poiché poteva farlo ha sparato. Ed è stato assolto. Gli Stati Uniti si sono dati un presidente afroamericano, l’Italia si è data una ministra nata in Congo; ma questi segnali di progresso, più che indicare un’uscita dal razzismo del senso comune. Come hanno efficacemente segnalato i manifestanti di Time Square, a colori invertiti – vittima bianca, sparatore nero – il procedimento e la sentenza sarebbero stati ben altri. Ha detto Barack Obama: siamo uno stato di diritto, la sentenza è questa, cerchiamo di capire adesso che cosa fare. Ma è proprio qui il punto: che “diritto” è quello che permette un’assoluzione del genere? La legge della Florida riconosce la legittima difesa anche a chi abbia agito solo per la percezione del pericolo, indipendentemente dal fatto che questo pericolo fosse o meno reale. E non c’è dubbio che un ragazzo nero in un quartiere bianco nell’ora sbagliata è automaticamente percepito, almeno in certi contesti, come una minaccia: una materia fuori luogo, un’invasione (ricordiamo Henry Louis Gates Jr., luminare afroamericano di Harvard, arrestato perché di sera un poliziotto lo ha visto che cercava di aprire la porta della propria abitazione?). Ora, questa idea del rischio percepito, come stato mentale soggettivo che produce conseguenze materiali sociali, la conosciamo bene anche noi: è stata alla base di tutte le politiche securitarie che hanno cercato di fondare le politiche statuali sulla paura dell’altro (del migrante, dello “zingaro”, del “clandestino”, dello straniero). Questa paura non solo percepita ma attivamente alimentata ha generato da noi il fenomeno, per fortuna molto marginale ed effimero, delle ronde leghiste e paraleghiste; e anche George Zimmerman, non un poliziotto ma un volontario che si era nominato vigilante da sé, è espressione di questo impulso a “fare da sé”, a prendere in mano la legge e la sicurezza – a mettersi, con consenso della legge, fuori della logica dello stato di diritto. Su questa paura permanente, fra l’altro, si fonda anche l’altro fattore nella morte di Trayvor Martin: l’ossessione delle armi. Nella maggior parte degli Stati Uniti, l’unico elemento di moderazione sul possesso delle armi è la norma che autorizza a portarle purché siano visibili; la Florida è uno di quegli stati che invece autorizzano il possesso di armi anche nascoste. Bisogna armarsi, dice la National Rifle Association, perché solo così ci si può difendere dagli aggressori armati che stanno dappertutto: una mentalità da assedio che si traduce, dopo l’11 settembre, in quell’ossessione del terrorismo che salda le paure private alle paranoie pubbliche. Ma nel caso di Trayvor Martin, il fatto che la pistola del suo uccisore non fosse visibile ha fatto sì che l’arma non avesse neppure una funzione deterrente, ma solo una funzione omicida. Disse Barak Obama, subito dopo l’assassinio: se avessi un figlio maschio, Trayvor Martin avrebbe potuto essere mio figlio. Non era una trovata retorica: sta a dire che la sorte di Trayvor Martin può essere la sorte di qualunque ragazzo nero, che ogni ragazzo nero costruisce i suoi percorsi nello spazio urbano città tenendo presente il pericolo che corre. “In queste strade”, dice la madre afroamericana al figlio, in una canzone di Bruce Springsteen, “devi capire le regole; se ti ferma un poliziotto promettimi che ti comporterai educatamente e non cercherai di correre via e terrai sempre le mani bene in vista”. Le mani di Trayvor Martin erano bene in vista, l’arma del suo assassino nascosta. Amadou Diallo, ammazzato dalla polizia con 41 colpi, aveva in mano un portafogli che i poliziotti hanno deciso di scambiare per un’arma. Trayvor Martin non aveva in mano neanche quello. E’ segno che nemmeno rispettare le regole ti protegge, che il pericolo te lo porti addosso direttamente nella tua nera “American skin”. Che non ti uccidono per quello che fai, ma per quello che sei. E la legge li assolve.

Mamma mia dammi 100 lire - il manifesto 13.7.2013

“Mamma mia, dammi cento lire, che in America voglio andar – cento lire te le do, ma in America no….” E’ una delle canzoni di tradizione orale più diffuse in tutta Italia: la storia della ragazza che parte per l’America incoraggiata dai fratelli (“mamma mia lasciala andar”) ma portandosi addosso la maledizione della madre (“vai pure figlia maledetta”)e muore quando “a metà del mare il bastimento s’inabissò”. Come sappiamo, l’Italia è oggi un paese sia di emigranti sia di immigranti. Perciò abbiamo la possibilità di guardare all’esperienza delle migrazioni da tutti e due i punti di vista, di chi resta, di chi parte, di chi arriva. Su questo, le canzoni popolari ci permettono di capire molte cose: per esempio, il risentimento, la rabbia, il dolore di chi resta e si sente abbandonato, come se emigrare fosse una fuga da una lotta per la sopravvivenza che si continua a combattere restando (ce ne costa di lacrime l’America a noi napoletani…. non ci rimane più che preti e frati, monache di convento e cappuccini e quattro commercianti disperati…. o addirittura: mio marito sta in America e non mi scrive, non so che mancanza gli ho fatto – forse la mancanza è questa, che mi ha lasciato un figlio e ne ritrova sette…) Ma uno degli effetti dell’immigrazione è che anche queste nostre storie cambiano senso. Tempo fa, la meravigliosa Sara Modigliani cantò “Mamma mia dammi cento lire” alla fine di un incontro in cui un gruppo di immigrati africani avevano raccontato le loro storie di traversie oltre il deserto libico e il mare Mediterraneo. Nel silenzio sorpreso di chi scopriva che avevamo una storia in comune, mi accorgevo che la storia era comune solo se la canzone italiana cambiava di senso alla luce della presenza dei migranti. La cosa importante non era più tanto il conflitto generazionale fra il vecchio resta e il nuovo che parte, ma il resto della storia, la morte per mare, un’esperienza così viva a chi ha attraversato un tempo l’Atlantico (“il tragico naufragio della nave Sirio”) e oggi il Mediterraneo. La presenza e l’esperienza degli immigrati, insomma, cominciava già a spostare l’accento sulla nostra stessa tradizione, a cambiare il senso delle nostre stesse parole. Poi , “Mamma mia dammi cento lire” si inoltra in una sequenza di strofe sul disfacimento marino del corpo della ragazza naufraga: “I capelli della Rosina il pesce a mare li mangerà”, e continuando con una strofa per ogni parte del corpo, in un’immagine di cambiamento marino dal sapore shakespeariano (“ora sono perle quelli che erano i suoi occhi”, La Tempesta ). Ma ci ha pensato il cinismo volgare di un’esponente leghista di Monza – se i naufraghi mediterranei hanno cercato di salvarsi aggrappandosi alle reti delle tonnare, è “un motivo in più per non mangiare tonno" – a spostare il senso di quei versi dall’archetipo poetico della morte per mare a una materialità tangibile di corpi, di morte e disfacimento. Molti anni fa, uno studente libico, integratissimo nella comunità universitaria, mi diceva che comunque “un ragazzo nero che parla romano è il segno di qualcosa che è stato deviato”. Due secoli prima, la ragazza schiava Phillis Wheatley (la prima donna poeta pubblicata in America) scriveva un sonetto sull’esperienza di “essere trasportata dall’Africa all’America”. Deviazione, in greco si dice tropos; trasportare si dice metaphorein. Cambiando strada, trasportandosi oltre il mare, i migranti trasformano le nostre metafore, le nostre figure retoriche, in materia. A cambiare direzione, ad essere trasportati, non sono più solo le parole, ma i corpi, e si tirano dietro le parole con sé. Le nostre storie raccontate ad altre orecchie, le nostre parole su altre labbra, non sono più le stesse. Quando nell’800 il grande oratore nero ex-schiavo Frederick Douglass teneva conferenze sul “self-made man”, tutte e tre le parole – uomo, fatto, sé – si capovolgevano dall’uso allora dominante che negava ai neri umanità, autonomia e soggettività. Oggi, Geedi Yusuf, giovane migrante somalo, scrive una poesia nella sua lingua in cui si infiltrano e si smascherano parole italiane come “stranieri” (pro nunciata “istaraniyeri”) e “ospite”. Quest’ultima è una parola dei nostri buoni sentimenti: li chiamiamo “ospiti” (o gastarbeiter) e ci sentiamo generosi e accoglienti perché li facciamo entrare in casa nostra. Ma per Geedi la parola “ospite” significa tutt’altro: significa che questa è, appunto, casa nostra e non sua, e lui è qui tollerato, provvisorio. Un ospite non può restare per sempre. E noi, non meno cinici della leghista di Monza, chiamiamo “ospiti” anche i rinchiusi nei CIE, da cui non possono uscire se non per essere ritrasportati via.