25 agosto 2013

Martin Luther King: I Have a Dream

l'unità 25.8.2013 Cinquant’anni fa, 250.000 persone si raccolsero a Washington in una grande manifestazione “for jobs and freedom” – per il lavoro e la libertà, organizzata da Philip A. Randolph, storico sindacalista militante nero e da Bayard Rusting, pacifista nero, gay, in odore di comunismo. Intervennero sindacalisti , leader religiosi, protagonisti dei movimenti, artisti. Il tutto culminò con lo storico discorso di Martin Luther King, e la sua celebre perorazione: “Ho un sogno…” Sono parole memorabili e in un certo senso sfortunate perché la loro eloquenza ha finito quasi per farci dimenticare le centinaia di migliaia di persone senza le quali quel discorso sarebbe rimasto solo un grande esercizio di retorica, e ridurre questa realtà di massa all’icona di una persona sola. E, riciclata e avvilita in tanti modi (dal caffè Kimbo ad Anna Oxa, da Silvio Berlusconi a Quagliarella) la frase del sogno ha finito per cancellare dalla memoria tutto il resto del discorso e la sua radicale politicità: “Ho un sogno, un sogno profondamente radicato nel sogno americano. Ho un sogno, che questa nazione un giorno sorgerà e vivrà il vero significato del suo credo: Riteniamo che certe verità non abbiano bisogno di dimostrazioni: che tutti gli uomini sono creati uguali… Ho un sogno, che le mie quattro bambine un giorno vivranno in una nazione dove saranno giudicate non dal colore della pelle ma dal contenuto del carattere. Ho un sogno, che un giorno ogni valle sarà elevata, ogni colle e ogni monte sarà abbassato, gli spazi ruvidi saranno levigati e i luoghi distorti saranno raddrizzati, e la gloria del Signore sarà rivelata e tutti i mortali la vedranno insieme”. Il sogno dunque riveste di familiari metafore bibliche (il faro della speranza, le fiamme dell’ingiustizia, l’alba della liberazione, le catene della segregazione …). una rivendicazione morale ma soprattutto politica: l’uguaglianza come significato originario della democrazia americana. King si colloca nella tradizione americana che fonda la denuncia degli errori e le ingiustizie del presente sul recupero dei valori fondanti del paese, evocando esplicitamente i padri fondatori e Lincoln. L’impalcatura del suo discorso sta dunque nella relazione fra il passato concreto della storia, il futuro immaginifico del sogno, e la domanda inevasa: come si fa a far entrare il sogno nella storia? Ma poi scatta un cambio di registro: “Siamo venuti qui, “ dice, “per riscuotere un assegno”. E si apre una insistita sequenza di termini bancari: la Dichiarazione d’indipendenza e la Costituzione sono “una tratta, un pagherò”, che estende a tutti, bianchi e neri, l’”eredità” dei diritti inalienabili di vita, libertà e ricerca della felicità. “Invece di onorare questa sacra obbligazione,” continua,” l’America ha dato ai suoi cittadini di colore un assegno a vuoto, che è tornato indietro con il timbro ‘scoperto’. Noi rifiutiamo di credere che la banca della giustizia abbia fatto fallimento, di credere che non ci siano fondi sufficienti nei grandi forzieri di opportunità di questa nazione. Così siamo venuti a incassare quell’assegno – un assegno pagabile a vista che ci darà le ricchezze della libertà e la sicurezza della giustizia”. Apparentemente, in questa prosaica allegoria bancaria, siamo molto lontani dalla poetica del sogno. Ma c’è nulla di volgare o irriverente: le figure economiche non mancano nella Bibbia e nel Vangelo; e la poetica del protestantesimo americano sa attribuire significati spirituali ai più ordinari oggetti quotidiani; soprattutto, l’America, fondata da illuministi consapevoli della natura contrattuale del patto sociale, non si vergogna di parlare di denaro. Così, King ancora la rivendicazione morale dell’uguaglianza alla nascita stessa del suo paese: se di diritti civili parliamo, è nella sua storia civile che dobbiamo cercarne le basi. Anche per questo King insiste che queste promesse sono state fatte ai cittadini americani, che gli americani ne sono gli eredi, che quelli che rivendicano sono diritti americani : “Non ci sarà tranquillità in America finché ai Negri non saranno riconosciuti i loro diritti di cittadinanza”. Così, sposa la radicalità dell’ammonimento all’America (“i turbini della rivolta continueranno a scuotere le fondazioni della nostra nazione”) con l’ammonimento alla moderazione rivolto ai suoi (“Dobbiamo condurre sempre la nostra lotta sull’elevato piano della dignità, della disciplina e del sacrificio. Non dobbiamo permettere che la nostra creative protesta degeneri in violenza fisica. Sempre più dobbiamo elevarci alle maestose altezze di chi affronta la forza fisica con la forza dell’anima” perché “la sofferenza immeritata è redenzione”). E’ dopo queste concrete argomentazioni politiche che il discorso prende il volo. Ce ne accorgiamo dall’irruzione di un altro procedimento poetico: la ripetizione cumulativa, accompagnata dal crescere ispirato della voce e dal ritorno alle grandi metafore bibliche. “Ci chiedono: quando sarete soddisfatti? Non saremo mai soddisfatti”, risponde; e ripete: non saremo mai soddisfatti, finché saremo soggetti agli orrori della brutalità poliziesca; non saremo mai soddisfatti finché non potremo riposare negli alberghi e nei motel, non saremo mai soddisfatti finché la nostra mobilità sociale sarà solo da un ghetto a un ghetto più grande, finché i nostri figli saranno umiliati dalle scritte “solo per bianchi”, finché i neri in Mississippi non potranno votare e a New York penseranno di non avere nulla per cui votare. “No, no, non siamo soddisfatti, e non saremo soddisfatti finché la giustizia scorrerà a valle come le acque e il diritto come un fiume possente”. In queste parole c’è anche qualcosa del Martin Luther King futuro, capace di estendere la lotta dalle ingiustizie di diritto al Sud alle ingiustizie economiche di fatto al Nord. Troppo spesso dimentichiamo che la manifestazione del 28 agosto era convocata “per il lavoro e per la libertà”, che i suoi promotori sono innanzitutto sindacalisti, che tra le sue rivendicazioni dichiarate erano la parità universale nella formazione e dignità del lavoro e l’aumento dei minimi salariali. E che nel suo discorso John Lewis, dello Student Non Violent Coordinating Committee (l’organizzazione da cui poto tempo dopo scaturirà il grido “Black power”) aveva gridato: “Oggi manifestiamo per il lavoro e la libertà, ma non abbiamo niente di cui essere orgogliosi. Centinaia e migliaia di nostri fratelli non sono qui perché sono pagati con paghe di fame o non sono pagati affatto, mezzadri nel Mississippi che lavorano per meno di tre dollari al giorno, 12 ore al giorno… Ci dicono di essere pazienti e aspettare, ma non possiamo essere pazienti…. Fino a quando possiamo essere pazienti? Vogliamo la libertà e la vogliamo adesso” (e bisogna ascoltare le registrazioni per rendersi conto dell’ovazione possente che accoglie quel “now!”). Qui sta il passaggio più fragile e più potente del discorso. Da un lato, a chi grida “freedom now!”, King offre un generico ottimismo: “Tornate al Mississippi, tornate all’Alabama, tornare alla Sud Carolina, tornate alla Georgia. Tornate alla Louisiana, tornate allo squallore e ai ghetti delle città del nord, sapendo che in qualche modo (“somehow”) questa situazione può essere cambiata e lo sarà”. In quale modo? Con che strumenti, con che potere? Ma intrecciando la retorica delle origini democratiche con la Bibbia e gli spiritual, King fonda questa vaga speranza sul potere immateriale ma irresistibile della visione: è il momento indimenticabile del suo ribadito “I have a dream”. Per cambiare la situazione è decisiva la forza morale, la indomata soggettività e la ritrovata dignità di un movimento che si è dato una visione. Senza il sogno la realtà non cambierà mai. Utto il resto, le politiche e le strategie, viene dopo. Di qui la potenza e l’ambiguità di questa figura. Certo, il sogno rinvia a un futuro senza data – “One day”, un giorno (“che succede a un sogno differito?” aveva scritto Langston Hughes: “avvizzisce con un grappolo al sole, imputridisce come una piaga? Marcisce, si affloscia come un carico pesante? O invece esplode?”). Eppure, il sogno è la più alta delle possibilità umane, la capacità di vedere l’invisibile, dargli forma, cominciare a cercarlo. Il “sogno americano” è infine questo: non che gli americani sognino di più o sognino tutti lo stesso sogno o abbiano dei sogni tanto diversi dai normali sogni del genere umano. E’ che, nel momento in cui parole come “ricerca della felicità” o come “sogno” entrano nel lessico politico, il futuro è affidato all’umanità profonda di ciascun cittadino. Nel suo sogno, King intreccia l’ideologia liberale della rivoluzione americana, che attribuisce i diritti alla sfera individuale, con l’etica della controcultura, che fa nascere la rivoluzione dall’interno di ciascuno di noi. Anche noi abbiamo un nostro sogno differito, un contratto non soddisfatto: quell’articolo 3 della Costituzione che va anche oltre il “sogno americano”, perché proclama che realizzare la ricerca dell’uguaglianza è soprattutto “compito della Repubblica”. La cattiva politica di oggi non si limita a differire il sogno: lo azzera, lo annulla, lo nega. Perciò il sogno americano di Martin Luther King ricorda anche a noi che la possibilità di un futuro comincia nell’immaginare un altro mondo, cercare di dargli forma, e provare a realizzarlo.

09 agosto 2013

La festa per Priebke

Il manifesto 30.7.2013 Normalmente, quando una persona compie cento anni è sempre un segno positivo per le possibilità umane – anche se è una persona per cui non hai nessun motivo di rispetto, che si porta addosso la responsabilità di avere contribuito a spezzare centinaia di altre vite molto più giovani, e continua a considerarsi vittima e perseguitato e a non capire perché ce l’hanno con lui. Sono fatti suoi e se lui è contento, nei limiti dei benevoli arresti domiciliari a cui è soggetto, faccia pure. Noi siamo altrove. Ma non credo che i suoi camerati rendano un buon servizio a Erich Priebke continuando a farne la pubblica icona di un immarcescibile ideologia nazifascista, insistendo per trasformare questa privata tappa biografica in un momento di pubblica celebrazione. A quel punto la cosa torna a riguardarci, e diventa un’altra tessera in un mosaico di piccole e grandi schifezze che ammorbano l’aria che si respira in questo paese. E’ ormai un quarto di secolo che in questo paese si combatte una battaglia di conoscenza e di verità sulla memoria e il significato degli eventi di cui Priebke è stato protagonista, e di tutto quello che rappresentano per l’identità del nostro paese e di quel che resta della nostra democrazia. Per questo, dire a Priebke, ai suoi camerati e chi lo gestisce, che se vogliono brindare lo facciano nel chiuso del domicilio al quale è obbligato non rappresenta un accanimento nella vendetta; è, semmai, una difesa contro l’accanimento revisionista da cui siamo circondati e aggrediti. La pretesa festa pubblica per Priebke viene sulla scia delle irresponsabili frasi di Pippo Baudo (ma guarda con chi ci tocca discutere!) su via Rasella, che con la sua proterva ignoranza ha fatto più danno in dieci minuti di televisione di quanto decenni di libri, di teatro e di musica non possano compensare. Viene poche settimane dopo il convegno sul “nostro concittadino Graziani”che ha radunato attorno al vergognoso mausoleo di Affile fior di fascisti (tra cui alcuni che conosciamo fin dai tempi di piazza Fontana, la cui presenza infatti era prevista, stando ai giornali, anche alla festa per Priebke) senza che i media e le istituzioni battessero ciglio. Viene nel tempo delle banane alla ministro Kyenge, delle calcolate idiozie razziste di Calderoli di cui nessuno parla neanche più e lui resta tranquillo al suo posto, rappresentante istituzionale di un senso comune razzista e sessista che, come è emerso da un caso recente in Veneto e dai suoi strascichi, avvelena anche frammenti di sinistra. E’ una fatica immensa e frustrante cercare di fermarlo, ripetere ogni volta le stesse cose, sentire di aver parlato al vento e trovarsi ogni volta davanti agli stessi insulti alla verità storica e alla dignità umana. Ma per fortuna siamo ostinati.

06 agosto 2013

La terra e la città

il manifesto 24.7.2013 Saremo stati qualche decina nella simbolica occupazione del Borghetto San Carlo, ventidue ettari di terreno agricolo di proprietà comunale sulla via Cassia fra La Storta e la Giustiniana a Roma, abbandonato dall’istituzione e rivendicato ora all’uso pubblico da un gruppo di cooperative di giovani agricoltori. Ma eravamo virtualmente almeno diecimila, tante quante le firme che le cooperative Terra!, da Sud e Coraggio (Cooperativa Romana Giovani Agricoltori) hanno consegnato la settimana scorsa al sindaco Marino e agli assessori all’urbanistica e al patrimonio del Comune di Roma. Gli interventi che si sono susseguiti nel piccolo spazio di terreno liberato oltre il filo spinato e dietro il cancello ostinatamente chiuso e arrugginito, hanno sottolineato la disponibilità espressa dai nuovi rappresentanti delle istituzioni (municipi, comune e regione sono adesso su una stessa lunghezza d’onda, il clima può cambiare), il collegamento con altre esperienze vicine (per restare a Roma Nord, quella di Volusia o quella ormai radicata di Cobragor), e soprattutto l’idea che riprendere in mano il grande patrimonio delle terre liberi comunale non è solo un’occasione produttiva, occupazionale e di servizi, ma configura anche una diversa prospettiva sulla città. Roma, il terzo comune agricolo d’Europa, l’ agricoltura ce l’ha dentro e – come tante metropoli in crisi in tutto l’occidente – può farne un elemento di ripresa non solo economica ma anche, forse soprattutto, culturale e ambientale. Se per generazioni i contadini sono stati i custodi della terra e i creatori e portatori di preziosi saperi (troppo spesso disprezzati: c’è anche il disprezzo di classe verso i contadini e la loro fatica fra le ragioni dell’abbandono dell’agricoltura), gli agricoltori di oggi si sentono pienamente integrati in una cultura urbana in trasformazione. Non a caso, come mostrano le inchieste recenti anche della Coldiretti, l’agricoltura è uno dei pochissimi comparti economici in cui l’occupazione aumenta, anche fra i giovani. Anche per questo, le cooperative che rivendicano il Borghetto San Carlo progettano un’agricoltura moderna, multifunzionale, sinergica – da un lato, un’agricoltura capace di integrare tecnologie e conoscenze avanzate e di creare occupazione (parlano di almeno quaranta posti di lavoro); dall’altro, che non sia solo (preziosa) produzione di cibo ma anche cura dell’ambiente, bellezza, servizi al territorio, ricettività, progetti terapeutici e didattici – dagli asili nido all’ippoterapia – riconoscimento del valore del lavoro materiale e rinnovamento del contatto con la materia vivente, smarrito nell’invasione del cemento. Il fatto è che la città del terzo millennio non è più uno spazio edificato compatto ma un intreccio di usi molteplici del territorio. Un libro recente, Apocalypse Town dell’urbanista Alessandro Coppola, mostra come la crisi delle città americane in fase di deindustrializzazione, da Youngstown a Detroit a certe parti di New York – si sia rovesciata nella reinvenzione dell’uso dello spazio urbano, di cui gli orti del Lower East Side di Manhattan sono l’esempio più conosciuto ma non necessariamente il più importante. Anche a Roma vediamo i segni di questo processo, dalle occupazioni agli orti urbani ai gruppi di acquisto solidale ai mercati dei produttori della filiera corta; infatti l’intervento sulla Cassia si collega anche a un censimento che le cooperative stanno portando avanti su tutti gli spazi agricoli non utilizzati di proprietà pubblica di cui è costellata Roma. Anche per questo più di uno degli interventi in assemblea ribadiva la impraticablità del paradigma centro-periferia: il recupero del Borghetto San Carlo serve anche a immettere elementi di comunità e socialità in un’ex borgata diventata quartiere dormitorio. Ma è’ un compito urgente, perché gli usi e abusi passati lasciano danni spesso irreversibili. Penso all’esperienza dell’Orto Insorto al Casilino: uno spazio abbandonato dove gli occupanti hanno scoperto che la terra era ormai inservibile, avvelenata da sversi industriali e inquinamento (ma non ci hanno rinunciato, stanno studiando colture alternative e comunque quel terreno non edificato resta un luogo di socialità offerto al quartiere). Tutto questo, naturalmente, ha bisogno anche della politica. L’irresponsabile abbandono di tante preziose risorse di proprietà pubblica è anche la conseguenza dell’inerzia delle istituzioni. Il Borghetto San Carlo era di proprietà di uno dei grandi costruttori romani, Mezzaroma, che lo ha ceduto al comune in cambio di permessi di edificabilità in altre zone della città, obbligandosi a restaurare, al costo di tre milioni di euro, il meraviglioso e vastissimo casale che sta in cima alla collinetta del borghetto (e da cui fa l’altro si gode una straordinaria vista sulla campagna romana). Il termine in cui il manufatto restaurato doveva essere consegnato al comune è scaduto da mesi, ma non è stato fatto niente e l’amministrazione Alemanno non ha ritenuto suo dovere obbligare il costruttore al rispetto degli impegni contrattuali. La disponibilità dichiarata da Marino e dai suoi assessori è senz’altro sincera; ma per smuovere la macchina comunale e passare dalle parole ai fatti è necessaria la pressione, contestativa e collaborativa, di un movimento di massa sostenuto dal consenso dei cittadini. L’esperienza di Borghetto San Carlo è un segnale incoraggiante in questa direzione.