17 ottobre 2013

Due interventi su Erich Priebke

1. il manifesto 16 ottobre 2013 “Vengo a seppellire Cesare, non a lodarlo”, dice Antonio, nel Giulio Cesare di Shakespeare. Ma finge, e la sepoltura i trasforma in sovversivo elogio funebre. Allo stesso modo, apertamente, gli eredi neonazisti di Erich Priebke non vengono a seppellirlo ma a pretendere di lodarlo. La questione della sepoltura si è posta subito dopo il ritrovamento dei corpi degli uccisi alle Fosse Ardeatine. Mi raccontava la signora Vera Simoni, figlia del generale Simone Simore (torturato a via Tasso e ucciso alle Fosse Ardeatine) che il generale John Pollock, comandante delle truppe alleate dopo la liberazione di Roma, aveva pensato che, visto che i corpi erano già sotterrati, si potevano lasciare lì e costruirci sopra un monumento. Ma sua madre, e altre vedove delle Ardeatine, si opposero: noi vogliamo il riconoscimento di tutti, uno per uno, dissero. Da lì cominciò lì il tremendo lavoro del professor Attilio Ascarelli, dei suoi collaboratori, e dei familiari in lutto, per tirar fuori i corpi dalla terra, riconoscerli, e finalmente seppellirli. Sotterrare non è lo stesso che seppellire: di mezzo, scrive Ernesto deMartino, c’è il pianto e c’è il rito, che servono a far passare la perdita in valore. Per questo le spoglie di Erich Priebke sono un problema così grande. Da un lato, c’è la questione di disporre di un corpo - - magari, per certi cristiani, anche di pregare per la sua anima, cosa a cui anche i peggiori assassini hanno diritto (anche se sospetto che nel caso di questo peccatore non pentito non servirà a molto). Dall’altro, c’è il problema del rito: quale valore pensano di estrarre da questo passaggio i preti lefebvriani e i neonazisti, se non la pubblica proclamazione ed elogio dei perversi e protervi “valori” per i quali Priebke ha ucciso? (sarà una coincidenza, ma per parecchio tempo Albano, la cittadina dei Castelli Romani dove si vuole celebrare il funerale, è stato terreno di caccia dei neonazisti e fondamentalisti di Militia. Il loro leader Paolo Boccacci viveva lì, e già altre volte i cittadini democratici sono dovuti intervenire materialmente per impedire sfilate neonaziste in paese). E infine: c’è il pianto. C’è qualcuno che davvero piange per Erich Priebke? Non noi, non le famiglie delle sue vittime (qualcuno dice di avere perdonato, altri non perdoneranno mai: sono scelte profonde che spettano a ciascun individuo); nemmeno suo figlio, stando a quello che dice a i giornali. E certamente non i suoi manipolatori e le squadracce neonaziste, per i quali Erich Priebke già da vivo – ma sempre incapace di capire e di sentire - era meno e più di una persona, un docile fantoccio da esibire a comando, e adesso da morto è solo un’occasione. Viene da averne pena. Sotterriamolo e, senza dimenticare niente, lasciamolo lì. 2. Il manifesto 17 ottobre 2013 Racconta Lorenzo Foschi, antifascista di Albano: “Qui c’è un certo Boccacci, Maurizio Boccacci, che è di Albano, e qualche anno fa ha fatto addirittura una manifestazione nazionale della Fiamma Tricolore: settantotto persone in giro per il corso in una città militarizzata dalla sera prima alla nottata dopo... Io mi ricordo, andai in piazza, cominciò ‘sto corteo, li contai: erano settantotto, e c'erano cinquemila persone venute lì per protestare, sulle scalette della sezione, sulle vie laterali che scendono verso il corso – tutta la cittadinanza, saranno state mille persone. Come comincia il passaggio del corteo cominciamo a cantare Bella ciao. Un coro fragoroso, un fragoroso coro di Bella ciao. Un individuo si stacca dal corteo, si mette sotto la sezione e ci fa il segno che ci tagliava la gola. Non ti rendi conto di quello poteva succedere in quel momento – abbiamo aiutato il servizio d’ordine a tenere ferma la gente, perché se no lì succedeva un casino: settantotto ragazzotti, più di mille di noi, che poteva succedere? Fortunatamente, eccetto un paio di cariche dove s'erano dati appuntamento i centri sociali, poi è finita lì”. Bella Ciao ad Albano l’hanno cantata anche davanti alla bara di Erich Priebke, che pretendeva nella loro città gli omaggi funebri, e anche adesso sono tornati a scontrarsi con le provocazioni nazifasciste. L’antica cintura rossa dei Castelli Romani ha visto passare molta acqua sotto i ponti dal tempo delle grandi lotte bracciantili, della Resistenza, delle occupazioni delle terre. L’espansione di Roma ha in parte diluito le roccheforti rosse come Albano o Genzano facendone propaggini della periferia metropolitana, ma non ha cancellato tutto. Quelli che sono andati in strada ieri erano, certo, i discendenti della lotta partigiana e dei suoi protagonisti indimenticabili – Severino Spaccatrosi, Salvatore Capogrossi, Pino Levi Cavaglione... Era, oggi come allora, il senso comune profondo della città che si ribellava. Raccontavano allora altri compagni: “Dalla finestra, un paio di signore hanno cominciato ad urlare “fascisti di merda”, e molti padri di famiglia con i loro figli si sono uniti al presidio antifa, urlando slogan contro la Fiamma e contro il sindaco [di destra] che ha permesso una manifestazione di questo tipo”. E’ successo di nuovo; ma non erano lì per il passato o per la memoria: erano lì per il presente, per la politica e per la dignità di tutti. E’ uno strano paese il nostro. Risponde con uno schieramento militare alla morte di massa nel Mediterraneo, insulta la ministra Kyenge, butta l’acido muriatico sui bambini Rom, erige monumenti al criminale di guerra Rodolfo Graziani, e poi si prodiga in cerimonie, commemorazioni, alate parole sulla memoria – che peraltro incidono relativamente poco: basta sentire la radio in questi giorni per accorgerci di quanti ascoltatori distolgono lo sguardo dal massacro delle Ardeatine per ripetere i soliti falsi racconti antipartigiani su via Rasella. Abbiamo orrore dell’antisemitismo, facciamo leggi contro il negazionismo, e poi sentiamo un presunto un prete cristiano affermare che Priebke “è l’unico innocente dietro le sbarre” – mentendo tre volte, perché Priebke non è innocente, perché dietro le sbarre non c’è stato mai, e perché di innocenti in galera l’Italia è piena. In questo contesto, la protesta di Albano e dintorni è stata una ventata improvvisa di verità. Li dobbiamo solo ringraziare. 3. il manifesto 19 0ottobre 2013 Strano paese l’Italia, dove si dedicano prime pagine di giornali e trasmissioni televisive alle spudorate menzogne di un assassino nazista che sostiene che la Shoah è un’invenzione. Magari l’idea è di confutarle ma intanto si amplificano e si prendono sul serio. Però, visto che questo è l’unico gioco in città, dobbiamo anche noi dire qualcosa. Primo. Erich Priebke mente dicendo che i comandi tedeschi avevano affisso manifesti in cui minacciavano rappresaglie in caso di azioni contro di loro. I manifesti fatti affiggere da Kesselring dopo l’occupazione di Roma dicevano infatti che i colpevoli di azioni antitedesche (quindi: non ostaggi che non c’entravano) sarebbero stati puniti secondo il codice militare germanico. Un manifesto sulle Fosse Ardeatine fu affisso, ma dopo, a strage avvenuta. Ma dimenticano la fatidica frase finale, “quest’ordine è già stato eseguito”. La persone che dicono di averlo visto prima sono forse tratte in inganno dall’errore di sintassi in cui si dice che dieci italiani per un tedesco “saranno” uccisi. Tutto questo Priebke lo sa benissimo, visto che di quei comandi faceva parte. Se dice il contrario non è perché si sbaglia ma perché mente. Secondo. Priebke ripete l’affermazione secondo cui i “comunisti” fecero l’”attentato” proprio per provocare la rappresaglia. Intanto, come fa a saperlo? E poi: ancora negli anni ’90, il giudice Pacioni provò caparbiamente a incriminare i partigiani Bentivegna, Capponi e Balsamo proprio con questa accusa, ma fu costretto a lasciarla cadere e a prendere atto che, per quanto l‘avesse cercata, non esisteva uno straccio di prova in proposito. Se adesso Priebke lo ripete, o se glielo fanno ripetere i manipolatori di cui è stato consenziente pupazzo, lo fa sapendo di non dire la verità. Terzo: non poteva non obbedire all’ordine. Intanto, se davvero avesse fatto tutto questo solo perché costretto, forse qualche segno di turbamento vero nei settant’anni seguenti, l’avrebbe fatto. Poi: non è vero che gli ordini di Hitler non si potessero discutere:Hitler avedva ordinato di far saltare in riail centgro di Roma e deportare diecimila persone, poi di uccidere t50 italiani per un gtedesco, solo dopo una estenuante trattativa si arriva al 10 a 1 La cosiddetta “legge dei dieci italiani per un tedesco” non è mai esistita: basts fare qualche conto elementare su1i datti delle centinaia di stragi naziste per trovare un’aritmentica assolutamente variabile (a Civitella Val di Chiana sono 156 contro 3) . E infine: ma chi l’ha obbligato, Erich Priebke, a mettersi nella condizione di ricevere un ordine simile? Non era mica obbligato, negli anni ’30, ad accettare l’inquadramento nella SS (a proposito: erano un corpo di polizia di partito, non facvano pare delle forze armate. Quindi, Priebke mente anche quando dice che era un “soldato”). Una volta entrato senza che nessuno lo costringesse in quell’organizzazione,Priebke aveva volontariamente consegnato la sua coscienza a Hitler; è inutile che si lamenti poi se Hitler ne ha fatto quello che ne ha fatto. Per tutti i suoi 100 anni, Priebke ha portato la coscienza all’ammasso: come è stato un boia disponibile nelle mani del regime, è stato un pupazzo consenziente nelle mani dei suoi cosiddetti avvocati, e ripete fino a dopo morto le bugie che questi gli hanno messo in bocca. Se adesso stiamo qui a discutere di queste menzogne è anche perché il sistema dei media ci sta facendo perdere il senso della distinzione fra ciò che è vero e ciò che non lo è. In televisione, oggettività significa per condicio fra “tesi” contrapposte, fregandosene di chiedersi se una è sensata e l’altra no (ma come si fa a mettere sullo stesso piano Giulia Spizzichino e l’avvocato Taormina?).Nella rete, come in certe nostre città, rischiamo che l’aria pulita che ci si respira sia soffocata di essere soffocati da ogni genere di spazzatura che circola con la stessa apparente dignità (ma non c’è nessuno a youtube che impedisca di dare spazio a questi veleni?). Infine, ho l’impressione che i media si sia lasciati sfuggire una grande notizia: se prendiamo sul serio quello che dice Priebke, forse allora – dato che lo dice lui – dovremmo metterci anche a discutere se la Shoah è davvero esistita. In fondo, se gli diamo ascolto quando parla di manifesti, di complotti comunisti e di ordini irresistibili, non capisco perché non dovremmo considerarlo un “testimone” quando parla della Shoah. Oppure: se quando buttiamo nella spazzatura il suo negazionismo sul geno11cidio,per qujale masochismo continuiamo a prendere sul serio tutto il resto?

05 ottobre 2013

Giap-Giap-Ho Chi Minh

il manifesto 5.10.2013 Il suo nome aveva ritmato i passi di un paio di generazioni: “Giap – Giap–Ho Chi Minh”. Anche di queste cose è fatto un mito: un nome che diventa suono e un suono che si rende autonomo dalla materia a cui si riferiva. Adesso che arriva la notizia della sua morte, a 102 anni, tanti di quelli di noi che scandivano col suo nome i cortei, e magari qualche volta non sapevano neanche tanto bene chi era, sono quasi sorpresi dal fatto che non si era dissolto insieme con quelle sfilate. Giap-Giap era il suono di un sogno e di un mito, ma Võ Nguyên Giáp era una persona e una storia. Era vivo, anche se dopo tanto tempo non sapevamo più se lottava insieme a noi, o se noi lottavamo ancora insieme a lui. Il Vietnam è stata una delle ultime volte in cui potevamo pensare di sapere da che parte stare, chi aveva torto e chi aveva ragione. Poi le cose si sono confuse, il Vietnam libero e rosso è stato diverso da come lo sognavamo, le tessere del” domino” sono cadute in direzione contraria a quella che immaginava la paranoia imperialista; ma il nome di Giap è indissolubilmente legato non solo a quel sogno ma soprattutto alla memoria di una volta almeno che “i nostri” hanno vinto. “Vietnam vince perché spara”, abbiamo gridato. Giap era un militare, aveva combattuto e vinto contro i francesi, i giapponesi e adesso gli americani. Di quella rivoluzione, Ho Chi Minh era la saggezza e Giap era la forza. La sua morte lo riconduce dal mito alla storia, gli restituisce per intero il suo nome. La lunga vita di Võ Nguyên Giáp ha attraversato tutto il secolo breve e gli ha dato forma. E’ stato un secolo in cui spesso i deboli hanno osato sfidare ai potenti e qualche volta hanno vinto. Per questo i vincitori di oggi vogliono ossessivamente esorcizzare il ‘900. Ricordare Giap, sapere che è esistito, magari anche rivedere (modificare, ma tornare a vedere) certe nostre immagini di allora, ci aiuta a non pentirci e ad essere orgogliosi del nostro tempo. A proposito: dal 1993, Võ Nguyên Giáp era cittadino onorario di Genzano, già roccaforte rossa dei Castelli Romani.