16 agosto 2014

La Plata: città di memoria

il manifesto 14.8.2014 ................................. Il bar dell’università di La Plata, Argentina, un pomeriggio di agosto. Musica, voci. Di colpo, la musica si ferma, le voci si abbassano, tutte le facce si girano con gli occhi alzati verso la TV. “Come al Mundial”, commenta qualcuno. Ma non è il mundial. Trasmettono in diretta, per intero, senza interruzioni pubblicitarie, la conferenza stampa di Estela Carlotto, presidente delle Abuelas de Plaza de Mayo, e di Guido, suo nipote appena recuperato. E’ impossibile descrivere l’impatto emotivo per tutta l’Argentina. In un Paese dove gli scomparsi e la dittatura sono ancora memoria aperta e ferita viva, la tenerezza personale verso una anziana signora coi capelli bianchi che ritrova un nipote perduto e cercato da 35 anni si intreccia con il sollievo pubblico di sentire, in tempi difficili, che l’ostinazione, la passione, la lotta ci trasformano da vittime in protagonisti, e non sono sempre invano. Forse è davvero un po’ come il mundial, un’emozione che unisce tutto un paese. Ma è un’emozione di altra profondità e spessore. Certe volte si può sconfiggere il passato. ……………………………………………………… A La Plata tutto questo è ancora più intenso. Ci vengo da un po’ di anni, e mi vado convincendo che – si parva licet – questa città un po’ anonima dove le strade non hanno nome ma numeri, perpendicolari e diagonali, è un poco come Roma: non puoi fare un passo senza sentire la storia sotto i piedi. Qui, una storia recente che sanguina ancora. ……………………………………………………. L’università si è appena trasferita da un francamente orribile edificio nel centro (“un panoptico”, dice uno studente) in questo campus nel verde di edifici immacolati e spaziosi appena restaurati. Volevano farci un supermercato, l’opinione pubblica glielo ha impedito. In passato, era la sede di un reggimento militare, e in questi edifici si praticarono detenzioni e torture. Anni fa, feci un corso in un centro di documentazione che era l’ex sede della polizia politica, con tutti gli schedari ancora lì; molta gente cambiava ancora marciapiedi passandoci davanti, come da noi a via Tasso.. Rovesciare il senso di questi luoghi è un modo di ricordare che cosa sono stati per proclamare che non lo saranno mai più. ……………………………………………….. Laura Carlotto, la figlia assassinata di Estela e madre di Guido, era studentessa di questa università, come anche il suo compagno desaparecido, Oscar Montoya. Fuori del bar, una placca sul muro bianco elenca almeno 150 studenti, docenti, dipendenti dell’università uccisi, desaparecidos, torturati. Il nome di Laura Carlotto è poco sotto quello di Maria Brugnone de Bonafini. Sia Estela Carlotto sia Hebe Bonafini, leader delle Madres, sono di La Plata. Le radici delle Abuelas e delle Madres de Plaza de Mayo stanno qui, in questa città studentesca colpita dalla repressione più di ogni altra, circondata di realtà operaie – praticamente attaccata c’è Berisso, con gli antichi stabilimenti abbandonati dell’esportazione della carne, collorata da murales che ricordano le lotte operaie. ……………………………………………………… Sto ancora leggendo la placca e passa una ragazza. Me la presentano: è la nipote di un comunista che, ancora studente, fu ammazzato dentro l’università dalla destra, negli anni ’60. ………………………………………………………… I dottorandi in storia mi hanno portato a conoscere un altro luogo di memoria: la casa Mariani-Teruggi. Era la sede della tipografia clandestina dei Montoneros; nel 1976, l’intero isolato fu circondato da unità di tutte le forze armate e di polizia e la casa fu letteralmente sfondata cannonate coi carri armati e bombardata con bombe incendiarie. Si vedono ancora i buchi e le pareti crollate, la macchina nel garage crivellata di colpi. Morirono Diana Teruggi, trent’anni, e altri quattro compagni. Suo marito Daniel in quel momento si trovava a Buenos Aires; fu catturato e desaparecido poco tempo dopo. ……………………………………………………. L’ano scorso, il mio ultimo giorno era il 16 settembre, l’anniversari di quella che chiamano “la notte delle matite spezzate”. Sotto una pioggia battente seguii il corteo degli studenti che sfilavano per ricordare i sei studenti medi assassinati qui a La Plata nel 1976, e per protestare contro i tagli governativi all’istruzione pubblica. I ragazzi erano colpevoli di avere appartenuto all’unione degli studenti medi, che aveva manifestato chiedendo il “Boleto Estudiantil”, uno sconto sui libri e i trasporti per gli studenti. Sovversivi da sopprimere. Entrando oggi in facoltà trovo un cartello: vogliamo il Boleto Estudiantil. …………………………………………………….. Carlos Esteban Alaye Dematti era stato un leader dell’unione degli studenti medi. Fu catturato e ammazzato nel maggio 1977. ………………………………………………….. Parlo a lungo con sua madre, Adelina Dematti Alaye, 87 anni, con le Madres fin dall’inizio. Mi racconta la storia della sua famiglia, a partire dai nonni emigrati intorno al 1870. ED ppoi, racconta di come, cercando le tracce di suo figlio, scoprì che il cimitero di La Plata è pieno di fosse dove la polizia seppelliva senza nome alcune delle sue vittime. Glielo hanno rivelato i falegnami e gli ebanisti a cui la polizia ordinava bare più in fretta di quanto riuscissero a fabbricarle. ………………………………………………….. In TV, Guido Carlotto dice: l’incontro fra me e mia nonna significa che dobbiamo continuare a cercare ancora., Hanno ritrovato 114 figli e nipoti rapiti, ne mancano ancora quasi 300. Anahì Mariani, figlia di Diana e Daniel, due mesi, fu portata via dalle macerie della sua casa, dagli assassini dei suoi genitori. Non è stata ancora ritrovata.

Ho le prove che Clara Anahí è viva: intervista con Chicha Mariani

Intervista con Chicha Mariani La Plata 12.8.2014 .............................. il manifesto 14.8.2014 ............................. Oggi, 12 agosto, è un giorno speciale. In questo giorno, 38 anni fa, nasceva una bambina a cui misero nome Clara Anahì. Tre mesi dopo, il 24 novembre 1976, fu rubata dai militari che avevano bombardato e distrutto la sua casa e ucciso sua madre Diana Teruggi e altri quattro compagni. Suo padre Daniel Mariani fu ammazzato sei mesi dopo. I suoi genitori erano montoneros e tenevano in casa la tipografia clandestina del movimento; la copertura era un allevamento di conigli. Clara Anahì nessuno l’ha più vista. Sua nonna Chicha Mariani ha novant’anni e continua a cercarla. E racconta. …………………………………………………………………………………………. Alla casa, da sola, ci sono stata solo una volta, che loro erano in viaggio e dovevo dare da mangiare e cambiare l’acqua ai conigli. Non so perché, mi prese un senso di terrore inspiegabile. Non sapevo della tipografia, ma tornai via portandomi dentro questa paura. Il giorno del mio compleanno vennero mio figlio, Diana e la bambina. Entrarono ridendo, dicevano che mi avevano fatto il regalo di compleanno. Avevano la machina piena fino al soffitto di biscotti. Dico, che ci faccio con tutti questi biscotti? Dice, non sono per te: sono per regalarli a tuo nome alla gente del quartiere. È questo il tuo regalo di compleanno. E lo fecero, li andarono a regalare in un quartiere operaio, in periferia. Era il 19 novembre. Il 24 successe tutto. Fu l’ultima volta che le ho viste. Era mercoledì, tenevo la bambina tutti i mercoledì e i sabati e avevo preparato il bagnetto, il mangiare; me la lasciavano tutta la sera, lei mi guardava con quegli occhi grandi… Mi ricordo che una volta ero arrivata a casa loro, lei piangeva e quando sentì la mia voce si mise a ridere contenta. ............................ Quel mercoledì 24 novembre, uscii di corsa da scuola, presi un taxi per arrivare a casa prima che Diana mi portasse la bambina. E non arrivava, non arrivava, e dopo un po’ comincio a sentire bombe e spari, bombe a spari, e avevo paura che Diana stesse in strada con la bambina e ci andasse di mezzo. Passata un’ora e non arrivava, disperata, vado da un’amica che abitava lì vicino. Vedevo gli elicotteri che girava e giravano, camion di soldati per la strada, la mia amica dice vengo con te, e tornammo qui aspettando, aspettando, aspettando. Continuavano gli spari, le bombe, i camion, e Diana non arrivava. Mi fa molto male raccontarlo. A me non mi uccisero perché mentre ero lì con la mia amica mi telefonò mia madre che mio padre s’era ammalato, e voleva che andassi da loro. Dico non posso, non posso, aspetto i ragazzi, non ho notizie… Mia madre insiste, e ci andai. Lasciai un biglietto sul camino – ragazzi, vado dai nonni, torno domani. La mattina dopo prendo l’autobus per tornare a casa. Non mi immaginavo che quella notte avevano attaccato anche casa mia. Trovai tutto distrutto, mi lasciarono senza niente. C’erano tutti i vicini ammassati davanti alla mia porta, pensavano che ero lì dentro morta. I soldati, avevano sparato, sfasciato, saccheggiato, si erano portati via pure il sacchetto di carbone per l’asado. Una rapina orribile, vergognosa. Un caos, avevano rovesciato tutte le bottiglie, l’olio, tutto versato sopra le carte, i vestiti, i mobili. L’unica cosa intatta era il seggiolone di Clara, la mia assicurazione sulla vita, e il nastro del Requiem di Verdi diretto da mio marito. ................................. Credevamo tutti che Clara Anahì era morta. Stavo dai miei genitori perché a casa mia non potevo stare, per la polvere, l’odore della polvere da sparo, che ancora adesso non lo sopporto. Piangevamo disperati, e venne una signora e ci disse non piangete, la bambina è viva, mia nonna ha visto che la portavano via. A noi avevano detto che era morta anche lei. “No, mia nonna l’ha vista, è viva”. Io quella donna non l’ho più vista, non ho mai saputo chi era. Poi avemmo altre prove che era viva. ........................................................................................ Pochi giorni dopo tornai a pulire la casa, a sistemarla, ero sola, riempivo scatoloni e scatoloni di roba rotta e sporca e li mettevo sul marciapiedi. E un giorno, ero ancora a casa quando passarono gli spazzini, e successe una cosa emozionante– sollevavano gli scatoloni con la nostra roba come se fossero stati qualcosa di sacro. Li vedevo da dietro le tendine della finestra, e mi commosse, in quel momento non so che cosa mi successe in quel momento, però dentro di me mi fece bene. Ne parlai poi con Edoardo Galeano, ne parla nel suo libro, Memorias del fuego. ......................................................... Pulivo e mettevo a posto, piangendo disperata, pensavo che li avevano uccisi tutti. Invece mio figlio quando successo tutto era Buenos Aires al lavoro. Entrò in clandestinità, non volle lasciare il paese. Ci incontrammo, con lui e mio marito, in campagna, un posto terribile, lo implorammo che se ne andasse, mio marito gli aveva già comprato una casa a Roma, perché se ne andassero lì. Lo implorò piangendo, in quel campo. “Ti prego, vai via”. “No, non me ne vado. Hanno ucciso Diana, non me ne posso andare, per i miei compagni non me ne posso andare, e devo aiutare a cercare Clara Anahì”. Così ci lasciammo, e lo uccisero il 1 agosto del ’77. Fu un’epoca terribile, io cercavo da sola, non mi immaginavo che ci fossero altri figli spariti. Sempre sola. Non lo dicevo neanche ai miei genitori. Andavo dappertutto, mi poteva succedere qualunque cosa. Mi ricevevano con disprezzo, sgarbati, mi lasciavano sulla porta, non mi facevano entrare. Ma all’ufficio minorenni una funzionaria mi disse che c’era un’altra donna che cercava sola. Feci un salto, corsi a cercarla, le dissi di lavorare insieme, perché in due ci avrebbero dato più ascolto. Disse, sì, però io conosco altre, che avevano le figlie incinte e non le trovano. Ci riunimmo con loro. ........................................................... Doveva venire Cyrus Vance, inviato di Jimmy Carter, a vedere che cosa succedeva in Argentina. Lo aspettammo in plaza San Martìn. Andai senza sapere niente, senza conoscere nessuno. Era pieno di soldati, militari, cani, da tutte le parti. Mi avevano detto che ciascuna avrebbe scritto la sua testimonianza e l’avrebbe consegnata a Cyrus Vance; io avevo preparato la mia, passa Cyrus Vance, circondato dai soldati, dai cani poliziotto, e le Madres tutte nello stesso momento si mettono il fazzoletto in testa e cominciano a gridare i nomi dei loro figli. Io restai pietrificata, e non glielo diedi. Venne una signora correndo, era Azucena, la madre di un desaparecido, dice gliel’hai data la tua testimonianza? No, non so come fare. Me lo strappò di mano, gli corse dietro e glielo consegnò. Poi seppi che l’avevano desaparecida un mese dopo. ....................................................... Restammo lì sul marciapiedi, e vennero le dieci Madres che erano rimaste, e sorridevano. Io ero tutta una lacrima, non capivo perché. Mi stavano accogliendo, come sempre hanno e abbiamo fatto, tutte con un sorriso, senza parlare ciascuna del suo dramma, se no non saremmo riuscite a lavorare. Quello fu il primo incontro delle Abuelas, il 21 novembre 1977. Ci organizzammo per vederci di nascosto, e la mia lotta diventò parte di quella di tutte. Mi fecero segretaria esecutiva. Per prima cosa scrivemmo al papa. La scrissi io perché ero l’unica che sapeva scrivere a macchina, con un dito. Il papa non ci rispose. Non ci rispose mai. Andammo a Roma, chiedemmo di essere ricevute e quelli vestiti di nero ci dissero che non riceveva, ma di andare tutte in piazza quando passava, con un cartello con scritto Nonne di Plaza de Mayo. E facemmo così. Ci fecero mettere dove passava il papa, emozionatissime, il papa polacco – era dello stesso paese di mio padre – insomma si avvicina il papa, saluta la gente che fa ala sul suo percorso, si avvicina uno di quelli vestiti di nero e gli dice qualcosa all’orecchio – noi stavamo lì, con lo striscione – il papa legge lo striscione, si volta dall'altra parte, ci passa davanti senza guardarci. Uno dei colpi più duri che mi ha dato la Chiesa, questo disprezzo, questo orrore. ............................................................ Ho le prove che Clara Anahì l’hanno portata via viva. L’ho cercata in tutto il mondo. Cercandola, abbiamo formato le Abuelas de Plaza de Mayo. E’ stato un lavoro di molti anni, di molto andare, di molta fatica. E la cerco ancora, Clara Anahì. Un giorno dopo l’altro.

Ho ritrovato mio nipote rapito dai militari: intervista con Estela Carlotto

Il manifesto 14.8.2014 Buenos Aires, 12.8.2014 Ho ricevuto una delle gioie più grandi della mia vita: ritrovare un nipote che mi rubò la dittatura civico-militare, quando mia figlia Laura, la più grande, lo diede alla luce in un campo di concentramento. L’ho cercato per più di trentasei anni – trentasette, perché quando l’hanno presa già sapevo che aspettava un bambino e cominciai a cercarlo, a reclamarlo alla giustizia di allora, che era la giustizia militare, una giustizia che non esisteva. Trentasette anni di cammino per tutto il paese, per tutto il mondo, cercando tutti i nipoti, perché questa delle Abuelas è un’istituzione collettiva – non si cerca il nipote di ciascuna, ma tutti i nipoti. E’ un lavoro duro, una lotta di donne che si sono ribellate, e ci riusciamo quando vengono loro a cercarci ora che sono adulti, come ha fatto mio nipote, o quando noi troviamo dati sufficienti per presentarli ai tribunali. Io vedevo che passavano gli anni senza notizie, avevo già fatto 84 anni e la mia preghiera era: non voglio morire senza riabbracciare mio nipote. Anche quando ho dovuto testimoniare al procedimento che è in corso contro gli assassini, gli chiesi che si mettessero una mano sul cuore, ci dicessero quello che sanno perché possiamo trovare i nipoti che sono desaparecidos vivi. Comunque non so come è arrivato il giorno in cui nei dati della nostra Banca dei dati genetici risultò che avevano identificato mio nipote Guido – perché per me, per la mia famiglia, si chiama così [lui è vissuto finora col nome di Ignacio e ancora si trova più suo agio così]. Il 5 agosto. Un miracolo, una cosa che mi ha riempito di luce, dicono che sembro rigiovanita di colpo. La gioia trasforma tutto. [Le compagne dell’università di La Plata che sono con me confermano: lo scorso aprile venne a La Plata a inaugurare la lapide all’università, e camminava col bastone, piegata, il volto scavato. Stasera entra senza aiuto, agile ed elegante come se avesse un quarto di secolo di meno]. Quello che sento da allora è una soddisfazione enorme non solo mia e della mia famiglia: penso a sua madre, a suo padre. E mio marito Guido. Perché la madre lo tenne nel ventre e lo partorì in un luogo orrendo, malnutrita, torturata, ma Guido, il suo bambino, nacque; e nacque bene. Era una coppia sfortunata, avevano già perso due bambini; ma si vede che in questa solitudine del carcere si afferrò a questo figlio. Da dove ci vede, sarà felice anche lei. E il padre, che pochi giorni dopo lo sequestrarono – assassinato. Trovammo i suoi resti, continuavamo a cercare, e c’erano delle corrispondenze con una famiglia del Sud. I ricercatori ci parlarono, gli dissero che c’era la possibilità che loro figlio desaparecido fosse stato il compagno di Laura e anche loro potevano essere i nonni, e accettarono di dare il sangue per la Banca. Così che quando si presenta qui mio nipote, subito si trova la sua identità perché c’era tutto il sangue, paterno e materno. Lo stesso giorno, ci incontrammo per conoscerci, a casa di mia figlia. Io andai per abbracciarlo forte – e lui disse, “piano – piano. facciamo le cose un po’ per volta”. E davvero sto vivendo un sogno. Perché io non sapevo che cosa avrei trovato. Chi lo aveva allevato, come lo avevano trattato, se era stato abusato, se lo avevano inquadrato per farlo diventare uguale agli assassini. Invece trovai un ragazzo puro. E’ cresciuto in campagna, con una famiglia di contadini che magari non ha tutte le sottigliezze della cultura ma lo hanno cresciuto bene. Non non credo che questa coppia di gente semplice, contadini, siano colpevoli, hanno agito in buona fede, in campagna si può credere che davvero una famiglia dia via un figlio che non può allevare. So che è un crimine contro l’umanità, perché era un piano preciso della dittatura; ma spero che non abbiano conseguenze troppo gravi. Non si capisce come è andato a finire con loro, è tutta una catena, l’ultimo che glielo ha consegnato è un latifondista, il padrone della terra che adesso è morto. Glielo ha consegnato e gli ha detto: non ditegli mai che non siete i suoi veri genitori. Guido è ancora in contatto con loro. Nessuno impedisce ai nipoti di farlo; solo col tempo, un po’ per volta,si allontanano. Però, dice, “c’era qualcosa in me, come un suono, che mi diceva: sono differente da loro. Mi piaceva la musica, e anche se ho studiato e mi sono diplomato, direttore di cantiere, che è un mestiere dove si guadagna bene, però volevo studiare musica”. Lo disse alla famiglia, loro gli dissero di no, ma lui ha insistito e adesso dirige una scuola di musica, ha una band – è una ragazzo buono, sano puro. Sentiva da sempre un’inclinazione verso i diritti umani, e ha partecipato anche a un nostro progetto, Musica per l’identità. Fra i musicisti c’erano alcuni dei nipoti ritrovati, e parlò con loro. Quando si decise a venire diceva ironicamente, perché è un ragazzo allegro, gli piace scherzare, diceva alla sua compagna: se esce che davvero sono figlio di desaparecidos voglio che mia nonna sia come minimo Estela perché è il massimo. Dice che aveva visto foto mie e che gli pareva che mi somigliava. Ma non è solo una cosa familiare. L’impatto sociale di questa notizia è stato condiviso a tutti livelli sociali. Mi ha scritto il papa, i presidenti di tutta l’America latina, l’Unesco. L’autobus 114 invece del numero girava col nome di Guido, perché lui è il nipote ritrovato numero 114. C’erano cartelli nelle strade, dai fruttivendoli. Tutti hanno reagito con gioia. Perché? Perché se ci possiamo unire nella gioia di questo incontro che è la liberazione di una persona e il sogno realizzato di un’altra che ha lottato tanto, c’è qualcosa che possiamo festeggiare in comune, qualcosa che ci appartiene a tutti. Ne avevamo bisogno? Credo di sì. Questo paese ne aveva bisogno, in questo momento, con il problema del debito e dei fondi avvoltoio, con le parole vuote della politica, con queste guerre in tutto il mondo – che poi è quello che predichiamo noi Abuelas: unità. Se tutti siamo abitanti di questo pianeta Terra, non possiamo essere nemici. Saremo diversi ma non nemici; e cerchiamo quello che abbiamo in comune. Bisogna dare un senso a questa gioia collettiva. Mi arrivano fiori da tutto il mondo, dalla Svizzera, dal Belgio; dall’Italia mi ha telefonato il sindaco di Arzignano,il paese da cui sono emigrati i miei, mi hanno telefonato dalla Fondazione Basso, anche politici, Massimo D’Alema... Dobbiamo condividere questo momento di amore collettivo. E già eravamo uniti nella ricerca. Alla campagna per invitare chi ha dubbi sulla sua identità a venire da noi hanno partecipato perfino i giocatori della nazionale di calcio. Perché parliamo di gente che adesso ha 35 anni, e fin dall’inizio abbiamo cominciato a domandarci che cosa potevamo fare per ciascuna età dei nostri nipoti. Abbiamo sempre lanciato messaggi adeguati all’età che potevano avere. Nell’adolescenza cercammo di raggiungerli attraverso il teatro perché sapevamo che c’erano ragazzi che facevano teatro; poi abbiamo fatto Musica per l’identità, Tango per l’identità… E siamo andate alle partite di calcio, coi cartelli. E poi è successa questa cosa di Messi. E Messi con molto piacere [insieme con Lavezzi, Mascherano, Aguero] è andato in televisione con il cartello delle Abuelas che invitai ragazzi a venire da noi. Adesso farà qualcosa anche Maradona. Si sono saturati i telefoni. Ci sono arrivati undici milioni di messaggi – come dire che almeno un quarto della popolazione argentina ci ha cercato. Adesso abbiamo un’affluenza incredibile di ragazzi che vengono; a quelli che hanno l’età giusta facciamo il test. Sanno che qui li aspetta rispetto, ascolto e – se sono nipoti di desaparecidos – la liberazione.