30 dicembre 2015

Joe Hill: 1915-2015

Era la fine del 1915, cent’anni fa. A Salt Lake City, Utah, i tribunali e lo stato uccisero Joe Hill, militante e bardo del sindacato rivoluzionario degli Industrial Workers of the World (IWW). Dal carcere, aveva scritto: “So che molti ribelli importanti dicono che la satira e la canzone sono fuori luogo in un’organizzazione di lavoratori, e ammetto che le canzoni non sono indispensabili alla causa; ma ogni volta che mi viene, continuerò a scrivere queste mie sciocchezze cantate, anche se so bene che la lotta di classe è una cosa seria.” Scrive Tom Morello, musicista ribelle di oggi: “Senza Joe Hill, non ci sarebbero Woody Guthrie, Bob Dylan, Bruce Springsteen, i Clash, i Public Enemy, Minor Threat, System of a Down, Rage against the Machine.” Joe Hill spiegava: “Un opuscolo, per buono che sia, lo leggi una volta e basta, ma una canzone la impari a memoria e la canti e la canti; se prendi un po’ di nudi fatti e di senso comune, li rivesti con un po’ di umorismo per renderli meno aridi, e li metti in una canzone puoi raggiungere tanti lavoratori troppo poco istruiti o troppo indifferenti per leggere un opuscolo o un editoriale.” La base degli IWW erano lavoratori migranti e stagionali, e niente è più leggero, resistente e trasportabile di una canzone; come poi il movimento dei diritti civili, gli IWW saranno un singing movement , i cui militanti girano l’America portandosi in tasca due cose: la tessera che li fa riconoscere come compagni dovunque vanno, e il canzoniere rosso, The little red songbook, il cui fine dichiarato era di “fan the flames”, alimentare le fiamme della rivolta. Joe Hill era un genio della parodia. Prendeva canzonette di successo, canti popolari, brani gospel, e rovesciava il senso mantenendo il suono. Prende una canzone popolare, la storia dell’eroico ferroviere Casey Jones, e lo trasforma in Casey Jones il crumiro, che si ammazza per far corere i treni durante uno sciopero, arriva in paradiso dove gli angeli sono in lotta, fa il crumiro anche lì e finisce a spalare zolfo all’inferno. Dalle canzoni di chiesa riprende la capacità di creare comunità, di cantare e improvvisare tutti insieme, e le trasforma in inni all’unità operaia. “There is power in the blood of the lamb,” c’è potere nel sangue dell’Agnello, diventa “there is power in a band of working man,” c’è potere in una schiera di lavoratori, quando sono uniti, mano nella mano. A forza di sentire le bande dell’Esercito della Salvezza annunciare la beatitudine futura nella dolcezza del cielo (“in the sweet bye and bye”), si inventa una frase diventata familiare anche da noi: “mangia e prega, campa di niente, e avrai la torta in cielo (“pie in the sky”)”. Senza Joe Hill, anche un po’ di Gianni Rodari (La torta in cielo, 1966) non ci sarebbe. Scrive Tom Morello: “Joe Hill non si limitava a scrivere canzoni contro l’ingiustizia. Era in prima linea, a rischio della vita, per creare un mondo migliore e più giusto. Per questo il potere aveva paura di lui. Per questo l’hanno ucciso”. Le sue canzoni hanno avuto un impatto così straordinario e duraturo perché nascono da dentro il proletariato ribelle, intrise del linguaggio che Joe Hill, immigrato proletario, aveva assorbito sui moli del porto di San Diego, fra i boscaioli dell’Oregon, nelle miniere di rame, nei saloon della Bowery, in tutti i posti dove aveva lavorato e lottato. Joe Hill rimane un’icona della sinistra (c’è anche un film di Bo Widerberg, Joe Hill, 1971. Peccato che nella versione italiana le canzoni siano cantate in pedestri traduzioni italiane) sia per le sue canzoni, sia per l’ ingiustizia simbolica della sua morte. L’accusa di omicidio per rapina fu sostenuta solo da vaghi indizi; i testimoni cambiarono versione in vista del processo; gli atti del processo scomparvero dagli archivi; il governo dello Utah rifiutò di ascoltare le proteste di tutto il mondo e il messaggio del presidente Wilson che chiedeva una revisione del processo. Ogni somiglianza con la storia di Sacco e Vanzetti è storicamente fondata. Nel 1938, Alfred Hayes ed Earl Robinson lo ricordavano in una canzone subito resa classica dall’interpretazione di Paul Robeson: “Ho sognato di vedere Joe Hill stanotte, vivo come e te. Gli dissi, ma Joe, sei morto da anni; e lui: non sono morto mai. Dovunque i lavoratori sono in sciopero, in ogni fabbrica e miniera, dove i lavoratori lottano per i loro diritti, è lì che troverai Joe Hill.” C’è traccia di questa canzone nel discorso di Tom Joad in Furore di Steinbeck (e nel film John Ford): “Dove si lotta per dar da mangiare a chi fame, io sarò lì. Dove c’è uno sbirro che picchia qualcuno, io sarò lì…” Dal romanzo e dal film, queste parole arrivano a Woody Guthrie e poi a Bruce Springsteen: “Dove c’è un poliziotto che picchia qualcuno, dove c’è una lotta contro il sangue e l’odio nell’aria, cercami e sarò lì…” “Il mio testamento,” scrisse Joe Hill il giorno prima dell’esecuzione, “è facile da fare: non c’è niente da spartirsi, perché il muschio non si attacca a una pietra che rotola”( già: a rolling stone). Se potessi decidere, vorrei che Il mio corpo fosse fatto cenere e la cenere sparsa al vento, che la porterà dove crescono i fiori, e forse aiuterà un fiore appassito a rinascere.” Al suo funerale, marciarono in 30.000. Ma forse avevano ragione Hayes e Robinson: Joe Hill non è morto, il suo fantasma è qui insieme a quello di Tom Joad. Chissà che ricordarlo e cantarlo non aiuti a far rifiorire quel movimento operaio per cui è vissuto ed è stato ucciso cento anni fa.

19 dicembre 2015

"Adua" di Igiaba Scego - il manifesto 15.12.2015

Erano appena i primi anni ’90, e alcuni di noi si posero una domanda: ma queste persone che arrivano ora da tante altre parti del mondo, stanno raccontando, stanno inventando, stanno scrivendo? C’era stato qualche incontro, qualche segnale, e ci domandammo se, con modalità paragonabili ma con tempi molto più rapidi, come negli Stati Uniti era nata una letteratura afroamericana, non stesse nascendo qualcosa che per mancanza di un altro termine, chiamammo provvisoriamente “letteratura afroitaliana”: persone non nate in Italia, o da famiglie non native italiane, che tuttavia scrivevano in italiano e pubblicavano in Italia. Ricordo un po’ di scetticismo. Gli italianisti dell’università che rifiutarono di accettare questi scritti come letteratura italiana (al massimo, “letterature comparate”); l’industria editoriale che da questi scrittori – come per quasi un secolo era successo agli afroamericani - si aspettava solo documentazione (autobiografia) o sentimenti (poesia), ma non gli riconosceva il diritto all’immaginazione (romanzo) e la capacità di metterla in parole. Inutile ripetere che il tempo ha dimostrato che questa scrittura non solo esiste, ma cresce e ormai è arrivata a piena maturità, a solida coscienza di sé, e occupa uno spazio tutt’altro che trascurabile nella cultura dell’Italia contemporanea. Sottolineo Italia: perché quella che con un termine non necessariamente soddisfacente oggi chiamiamo “letteratura migrante” è un’espressione imprescindibile di quello che è oggi il nostro condiviso e molteplice paese. Se la storia dell’Italia, se le radici dell’Europa sono in gran parte il colonialismo e le guerre portate nel resto del mondo, allora le memorie degli eritrei o dei curdi che oggi abitano l’Italia diventano a pieno titolo memoria di tutti. Per esempio, è memoria dell’Italia quella dà il titolo e il nome della protagonista ad Adua, il recente romanzo di Igiaba Scego: la prima sconfitta militare subita da un paese europeo (1896) per mano delle forze africane. Come ha mostrato la stessa Igiaba Scego in un altro utilissimo libro (Roma negata, Ediesse 2014), basterebbe guardarsi intorno per ritrovare nelle strade, sui muri, nei monumenti della capitale d’Italia i segni del passato coloniale italiano – glorificato dal nazionalismo e dal fascismo, trascurato e quindi tollerato dall’Italia democratica, e almeno in parte costruito proprio attorno alla non dichiarata intenzione di cancellare la memoria di quell’umiliazione originaria. Solo che adesso Adua è presente nelle stesse strade e negli stessi quartieri anche con un’altra connotazione e un altro punto di vista: quello degli italiani e dei migranti per i quali è una memoria (peraltro, come mostra il romanzo, ambigua e complessa) di dignità e orgoglio. Forse l’unico modo per elaborare davvero Adua è fare nostra Adua: riconoscerci in una memoria che, proprio perché è una memoria di guerra, non può essere che divisa nel momento in cui la accogliamo come condivisa. Come altri testi recenti (penso a Il comandante del fiume di Cristina Ali Farah, a Regina di fiori e di perle di Gabriella Ghermandi), Adua è il prodotto di questa stagione di maturità autoconsapevolezza di questa nuova letteratura italiana. E’ un romanzo ambizioso. Leggendolo, mi è venuta in mente la categoria di “opera mondo” elaborata da Franco Moretti a proposito di opere canoniche della letteratura “occidentale”, dal Faust a Cent’anni di solitudine: opere che cercano l’impossibile impresa di fare entrare in mondo intero in un solo testo, che naturalmente falliscono, ma che proprio nelle loro imperfezioni recano il segno della loro grandezza. Adua non si misura con il mondo intero, ma certamente ha il coraggio di cercare di mettere in un solo testo tutta la storia di un pezzo di mondo, quella di un’Italia della cui storia fanno parte l’Eritrea, l’Etiopia, la Somalia e le loro memorie. La protagonista la racconta all’unico interlocutore in grado, anche grazie alle sue grandi orecchie, di ascoltarla: l’elefantino del Bernini in piazza della Minerva, altra presenza africana nel centro dell’Italia. La storia di Adua va da un’infanzia rimpianta nella Somalia rurale alla scoperta del cinema nelle città colonizzate dagli italiani, dall’infibulazione allo sfruttamento sessuale in certo cinema italiano erotico-esotico degli anni ’70 (con un’appendice scopertamente berlusconica un po’ tirata per i capelli ma utile a portare la storia fino a noi), all’affetto e conflitto anche generazionale fra la prima diaspora postcoloniale e l'immigrazione recente (rispettivamente e spietatamente, nei relativi gerghi, “vecchie lire” e “Titanic"). Questa storia si intreccia con quelle del padre della protagonista, Zoppe, e del padre di lui: il contrasto campagna-città, le relazioni generazionali (le “paternali”, i monologhi in discorso indiretto libero del padre alla figlia sono le pagine meglio riuscite godibili del libro), ma soprattutto le complicazioni di un rapporto fra colonizzati e colonizzatori in cui la rabbia e il risentimento dell’oppresso si intrecciano con la subalternità e magari anche con l’opportunismo della sopravvivenza, in cui dai a tua figlia il nome di una vittoriosa battaglia anticoloniale ma poi coi colonizzatori (e quindi con la tua coscienza) sei per forza costretto convivere, adattarti e servire. Il padre di Adua nel romanzo si chiama Zoppe. Anche nella forma “Zoope”, è un nome abbastanza diffuso in Somalia. Ma una volta che entra nel discorso italiano, le connotazioni diventano altre, e a me suggerisce irresistibilmente il più famoso zoppo della cultura euro-africo-asiatica – Edipo. Come ha mostrato Carlo Ginzburg in Storia notturna, da Edipo a Cenerentola la zoppia - rottura della simmetria costitutiva del corpo umano – è il segno di uno squilibrio profondo, di un disordine cosmico; ma proprio per questo è anche il segno di una posizione intermedia fra mondi diversi e in comunicanti (sono zoppi il coyote e la iena, mediatori fra mondo dei vivi e mondo dei morti in molte mitologie native americane). Ora, Zoppe è appunto questo: come Edipo, è indovino, mediatore fra mondi visibili e invisibili, capace di evocare persone lontane e pre-vedere tempi futuri (cosa che aiuta Scego a far entrare nel libro anche tempi che sarebbero fuori del suo orizzonte cronologico); e di mestiere fa il traduttore, la più complicata di tutte le figure di mediatore in un mondo in cui le lingue non si capiscono fra loro. Traduttore traditore, dice il proverbio: Zoppe dà ai colonizzatori accesso alle parole dei colonizzati, e in gran parte rinuncia alla propria – non racconterà mai a nessuno la sua storia, e il silenzio lo avvelena (grazia alla sua capacità visionaria, e all’incontro con una bambina e una famiglia ebrea, Zoppe pre-vede anche la Shoah: anche qui, un po’ forzato, ma utile a ricordarci che antisemitismo fascista e razzismo coloniale sono legati a doppio filo; e funzionale all’ambizione di opera-mondo del libro). Il romanzo ci conclude in piazza dei Cinquecento. Nessuno ci pensa o lo sa: è un’altra memoria ambigua un po’ vergognosa e un po’ dimenticata. Proprio Igiaba Scego ci ha ricordato che prende il nome dei “cinquecento” italiani periti in un altro disastro coloniale, la battaglia di Dogali in Eritrea, nel 1897. Se uno la guarda su Wikipedia, ci trova un racconto “eroico” dei prodi italiani che soccombono a soverchianti forze africane – armate peraltro, sempre stando a Wikipedia, solo di lance. Se uno la pensa dentro la memoria di quelli che difendevano il loro paese da un’arrogante invasione straniera, è impossibile non stare dalla loro parte, contro una parte di “noi italiani” stessi. Se non la ricordiamo, è perché è vergognosa da due lati: da quello eroico-guerresco, perché è una sconfitta; e da quello civile, perché è parte di un’incivile storia di aggressione coloniale. In questo luogo simbolico, Adua si separa da Ahmed, il giovane immigrato con cui ha scambiato protezione, calore e affetto al di là delle differenze di età. Per la prima volta, lei si toglie lo “strano turbante” fatto con la stoffa blu ereditata da suo padre, e scopre che può liberarsi del peso e del marchio della sua memoria. Come dono d’addio Ahmed le regala una cinepresa: dopo essere stata filmata come oggetto da sfruttare, adesso finalmente potrà dare forma all’immagine che ha di se stessa. Per chi si libera dell’oppressivo turbante blu di una storia che ti grava addosso, piazza dei Cinquecento a Roma è soltanto la piazza della stazione: luogo multiculturale di incontri, di arrivi, di partenze, e di nuovi inizi.