09 luglio 2016

La scheda, il fucile e Dallas

Io non credo che possiamo essere contenti di quello che sta succedendo a Dallas in queste ore. In primo luogo, perché ci sono dei morti, e questo non è mai fonte di gioia. In secondo luogo perché sul piano della lotta armata, a vincere saranno inevitabilmente gli altri, difficilmente vinceremo, e ci saranno altri morti. Non è questione di retorica della non-violenza: le sue vittorie il movimento di liberazione afroamericano le ha conquistate con altri mezzi, con la mobilitazione di massa, e non è chiaro quali saranno gli effetti della strage di Dallas su questo piano. Ma credo che, come sempre accade, dobbiamo leggere gesti estremi e disperati come questo come sintomo e segno di qualcosa di più ampio, più profondo, e più nostro. Diceva Langston Hughes, il grande poeta afroamericano: “Che ne è di un sogno differito? Si inacidisce come un acino d’uva al sole, o s’infetta come una piaga e marcisce?... Forse si affloscia come un grosso peso. Oppure esplode?” In questa America che ti permette di ricercare e inseguire la felicità ma ti impedisce di raggiungerla, il fuggiasco sogno afroamericano dell’uguaglianza diventa sempre più differito e frustrante quando sembra più vicino. Malcolm X diceva: “the ballot or the bullet”, la scheda o il fucile. Gli afroamericani la scheda l’hanno usata, e hanno eletto Barak Obama. Il sogno sembrava a portata di mano, abbiamo letto editoriali sulla fine del razzismo, e invece è stato solo un nuovo inizio: l’abisso che per quattro secoli ha separato bianchi e neri, il vuoto su cui si strutturava l’America, è parso per un attimo ridursi, ma avvicinamento non ha creato armonia, bensì attrito, e l’attrito sanguina. Sanguina anche perché dall’altra parte – dalla parte di istituzioni intrise la vittoria afroamericana con la scheda ha subito additato a un’opinione pubblica spaventata e a istituzioni intrise di razzismo la strada del fucile. E le pallottole hanno continuato a volare, come fanno da secoli di schiavitù, linciaggi, segregazione, razzismo. Il sogno sembrava a portata di mano, ed è sfuggito di nuovo. Che cosa è allora questa promessa sempre rinnovata e sempre mancata? E’ una menzogna, che inacidisce e marcisce il sogno e produce disincanto, sfiducia, crisi della partecipazione e della democrazia? O una maledizione, che produce rabbia e paura e infine, in gesti come quello di ieri a Dallas, esplode? Direi che l’uno è il segno dell’altro: l’esplosione minoritaria e disperata è lo specchio della delusione e della rabbia impotente della maggioranza in una democrazia che ha fallito il suo compito.

08 luglio 2016

ILouisiana, Minnesota: il delirio dell'onnipotenza

il manifesto 8.7.2016 Chissà se in uno dei prossimi concerti Bruce Springsteen canterà “Devils and Dust”: “ho il dito sul grilletto, non so di chi fidarmi, ho Dio dalla mia parte e sto solo cercando di sopravvivere – la paura è una cosa potente, prende la tua anima piena di Dio e la riempie di diavoli e polvere….”E’ la metafora di un’America che da un quarto di secolo sta collocata alle crossoads fra onnipotenza e paura, con Dio dalla sua parte ma un mondo ostile e sconosciuto tutto intorno… E’ l’America che fra onnipotenza e terrore ha ucciso Calipari, e che fra onnipotenza e terrore continua gli omicidi quotidiani di polizia (580 nel 2016 finora, cui almeno 100 afroamericani disarmati). Era “visibilmente nervoso” e spaventato il poliziotto del Minnesota che ha sparato a Philando Castile: gli hanno insegnato che i neri sono tutti pericolosi, criminali e drogati, e che i criminali drogati sono tutti armati. Perciò quando Castile ha ripetuto il gesto che costò la vita ad Amadou Diallo (allungare la mano per prendere il documento che gli aveva chiesto), ha dato per scontato che stesse invece per prendere un’arma: come si può immaginare che un negro abbia un portafoglio? Il poliziotto aveva paura; ma era anche armato e quindi onnipotente: non capisco, ho paura, ma posso uccidere quello di cui ho paura, e lo faccio. Per un portafoglio scambiato per una pistola, Amadou Diallo fu crivellato da 41 colpi, per Philando Castile ne sono bastati quattro. Del senso di onnipotenza fa parte anche la quasi certezza dell’immunità. Finora nessuno dei poliziotti responsabili di uccisioni nel 2016 è stato punito. Dietro questa impunità c’è il senso – condonato, se non sotterraneamente condiviso, nella cultura delle istituzioni - che le persone di colore sono meno umane degli altri, ucciderle è meno grave. Questo è il gesto che ha sancito la morte di Allen Sterling in a Baton Rouge in Louisiana: un essere pensato come subumano per la sua identità è reso ancora più degno di essere schiacciato proprio dalla sua impotenza, lì a terra indifeso come un insetto che ti invita a schiacciarlo (abbiamo visto una scena identica, e finora identica impunità, anche a Hebron lo scorso marzo). E infine. Noi siamo governati da un parlamento che ha votato allegramente (Partito “democratico” compreso) che chiamare “orango” una donna nera (l’ex ministro Cécile Kyenge) “fa parte del discorso politico” e non è un insulto. Anche qui, insomma, sono le istituzioni le prime a designare i bersagli di violenza etichettandoli come subumani, meno meritevoli di esistere. Perciò se un fascista di Fermo chiama scimmia una donna africana sopravvissuta a Boko Haram, si tratta tutt’altro che di un pazzo e di un isolato, di uno che fa parte di una deviante e minoritaria cultura ultrà, ma del portatore estremo di un senso comune che non sfigurerebbe nel parlamento della Repubblica. E se il marito della donna offesa reagisce, allora l’aggressore è lui: i neri devono stare al loro posto, prendersi ingiurie e insulti e stare zitti. Anche qui, quando la vittima è a terra, l’assassino non si ferma, non è soddisfatto, deve andare fino in fondo, deve schiacciare questo insetto che da un lato ha la sfrontatezza di protestare e ti fa sentire minacciato (ma senti come minaccia la sua mera presenza), e dall’altro non ha la possibilità di colpire e ti fa sentire onnipotente. Il governatore del Minnesota scappa, i governanti dell’Italia accorrono a Fermo a far vedere quanto sono solidali. Chi9ssà dov’erano quando quattro bombe sono scoppiate, nella stessa città di Fermo, davanti a chiese colpevoli di ospitare migranti e rifugiati. Da noi è mano marcato il senso dell’onnipotenza, ma coltiviamo accuratamente la pianta della paura e siamo maestri nella pietà parolaia intrisa di indifferenza. In Louisiana e in Minnesota, gli afroamericani scendono in strada, gridano, protestano, cercano di ricordarci che “Black lives matter”, le vita nere contano negli Stati Uniti come nelle Marche. Ma fino a quando continueremo a pensare che le vite dei neri contano solo per i neri, che la Shoah sia un’offesa che riguarda solo gli ebrei, che la strage di Orlando è una questione dei gay, che gli assassini di polizia e gli assassini razzisti siano offese a una “razza” e non offese all’umanità – fin quando la sollevazione contro queste schifezze non sarà universale, anche la nostra rabbia non sarà che parole e polvere.